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All’interno della ormai non più così recente ondata di produzione elettronica a gusto hip-hop, da Flying Lotus a Shigeto, la figura di Will Wiesenfeld, alias Baths, sembrava quella dall’attitudine ad un tempo più frivola e a più concreto rischio di deriva virtuosistica. Soprattutto dal vivo il ragazzone della zona di Los Angeles rivelava una predilezione evidente per l’intrattenimento di qualità intrecciato con capacità tecniche ed esibizionismo da autentico prodigio. Risaltava, nell’album d’esordio “Cerulean”, più la padronanza degli strumenti tecnici e del suono che la capacità di songwriting, affondata nelle sabbie mobili ottundenti di cambi di ritmo, labirinti psicotici, vaghi e narcotici fraseggi dalla dimensione onirica. All’interno di questa decostruzione della sintassi elettronica era abbastanza chiaro come non si potesse proporre qualcosa come una stasi: l’evoluzione del progetto Baths era prevedibilmente dietro l’angolo, la direzione che ha finito per intraprendere, invece, risulta non poco sorprendente.
“Obsidian” è un album di cantautorato, soprattutto perché sono le liriche a definire la cifra che caratterizza il disco, rispetto a queste è infatti concepito e modificato l’impianto sonoro, in particolare se comparato a quanto proposto nel primo lavoro. Produzione segnata dalla malattia, l’album si sviluppa lungo una strada connotata dall’ombra della mortalità, della precarietà del tutto, della complessità eterea e fragile del vissuto: “Where is God when you hate him most?” scandisce Wiesenfeld nell’esordio “Worsening”, addensando il veleno in “Phaedra” quando accusa “It is you who made me want to kill myself”. Anche gli episodi più distesi, come la pianistica “No Past Lives” e l’estetizzante “Ironworks” appaiono marcate dall’inquietudine permanente dell’interminabile guerra emozionale sotterranea propria del Baths di questi tempi. Al contrario, il disgelo apparente delle sonorità catchy che, pur smorzate, riemergono di tanto in tanto nell’ascolto, vengono ad assumere un ruolo di sottolineatura di quanto dovrebbero negare: se infatti perversione è accostare elementi eterogenei non commensurabili, quella specifica di “Obsidian” è data proprio dalla giustapposizione dell’evasione sonora di un tempo e degli aggravati versi di cui sono il commento.
Una anormalità forse di passaggio, che conferisce valore all’opera di un personaggio impronosticabile a queste latitudini emotive fino ad oggi. “I could prod your hurt all night” canta Baths, in un album insano e disturbante forse proprio perché stravolge il panorama atmosferico che sembra consustanziale ad un certo tipo di musica.
65/100
(Francesco Marchesi)
13 giugno 2013