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Istituzione dell’indie scandinavo e in attività da fine anni novanta, i Club 8 donano alle stampe un album a suo modo definitivo, capace di spaziare tra tanti generi ma con guizzi di tutto rilievo. Per fare questo, si lascia definitivamente alle spalle il mood acustico-malinconico che caratterizzava “The boy who couldn’t stop dreaming” a favore di un suono elettronico e ambientale (nu chillout?) che sfocia in pezzi ballabili, come se i Saint Etienne si lanciassero nel repertorio delle meteore Cardigans.
Tuttavia l’apertura di “Kill kill kill”, primo singolo uscito a fine 2012, è spiazzante in questo quadro e a dispetto di un titolo tutt’altro che accomodante si rivela un pezzo di rara bellezza, sul filone noir di Stereolab e Air con l’organo di “Neon Bible” a fare da comparsata nel finale. La seguente “Stop taking my time” rivolta come un calzino il discorso grazie all’energia del cantato di Karolina Komstedt e al gioco di synth alla New Order. Terzo dei pezzi pubblicati “I’m not gonna grow old”, solare e balearica eppure fin troppo simile a “Holiday” di Madonna e spruzzata di Gipsy Kings; assolve meglio questo compito “A small piece of heaven”, una melodia contagiosa da jukebox in spiaggia.
“Above the city” si distingue dalle altre produzioni di Johan Angergard in due momenti salienti: “Hot sun”, trip-hop e sapiente psichedelia a braccetto per una summer in a solitary beach due anni dopo (e aspettando il ritorno di) Washed Out; e “You could be anybody”, un tuffo carpiato da voto otto nel mare della deep house. Tante lodi vengono un po’ a mancare dopo l’ascolto di “Travel” e “Less than love”, con gli Abba a complimentarsi; “Into air” inoltre è stretta parente degli ultimi M83.
Morale della favola: i Club 8 hanno avuto coraggio anche questa volta e soprattutto non sbagliano mai un colpo.
71/100
(Matteo Maioli)
12 giugno 2013