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Chiamatelo pure black metal per shoegazer fighetti. Fatto sta che i Deafheaven sono tornati a due anni dal poderoso esordio “Roads To Judah” con un’altra ora di assedio acustico. Correva l’anno 2010 quando George Clarke e Kerry McCoy avevano ideato il progetto a San Francisco. Background da secchioni metal, ma gusti ed estetica più vicini al rock. Il risultato è stato un contratto con la Deathwish Inc., l’etichetta di Jacob Bannon dei Converge, parola chiave: hardcore. Se non li conoscete, non abbiate paura. Non sono assolutamente dei metallari brutti, sporchi e cattivi, e magari capelloni e con le borchie.
McCoy include i My Bloody Valentine e gli Slowdive assieme ai Godspeed You! Black Emperor e a tutte le produzioni della loro etichetta (la Constellation Records) come quanto di più influente ci sia stato nella sua lunga formazione musicale. Clarke, dal canto suo, oltre che ai Burzum e ai Ride, ha sempre fatto riferimento ai Mogwai. E non a caso i Deafheaven si sono fatti conoscere dal pubblico più alieno ed estraneo al metal proprio grazie a uno split con la band black Bosse-de-Nage che conteneva le cover di due estratti da “Come On Die Young” della band scozzese (“Punk Rock” e “Cody”).
I Deafheaven oggi sono un quartetto a tutti gli effetti, con l’arrivo del devastante Daniel Tracy alla batteria e di Derek Prine al basso. La nuova sessione ritmica fila come un treno e lo si capisce senza aspettare un minuto, dalla straripante “Dream House” che in apertura lascia per nove minuti col fiato sospeso. Doppio pedale, Clarke si sgola sbraitando cose che solo lui. Le chitarre si dipanano tra arpeggi da emo d’annata e schiaccianti break core. Il pathos sfiora l’epica, ma impossibile non essere risucchiati in un buco nero infernale. Già di diritto tra i pezzi del 2013 (o quantomeno, intro e attacco dell’anno). Non è che l’inizio.
A prescindere dagli ovvi risvolti screamo della voce, a tratti pare di correre (o volare) lungo un graffiante filo rosso che collega il giappone dei Mono a quello degli Envy.
L’intermezzo post-rock di tre minuti di “Irresistible” fa riposare i timpani e pare riprendere il break più sommesso della devastante apertura. Niente di più illusorio. Una nuova lunga cavalcata, la titletrack arriva come un calcio tra i denti, malgrado le sue pause dreamy da Red House Painters al testosterone.
Un altro svarione, ancora più singolare, arriva in “Please Remember”, con le orecchie che a fatica si abituano alle chitarre acustiche dopo un paio di minuti di puro e appagante rumore. Eppoi ancora “Vertigo, ideale opera in tre atti tra crescendo-rallentamento-reprise, è un altro viaggio verso l’Ade in quattordici minuti. Distorsioni perfette, chitarre avvolgenti che si espandono in riverberi mai troppo evanescenti, scossoni post-core a rimettere i brani in carreggiata. Ma soprattutto grazie al lavoro impeccabile di Jack Shirley, “Sunbather” suona pulito ed efficace anche nei momenti più pericolosamente onanistici.
Da produttore specializzato anche in altre sonorità più morbide (Whirr, Dominant Legs) lo rende vagamente più fruibile nelle fasi più “ascoltabili” per i non abitué. L’altro intermezzo ambientale, “Windows”, dà il respiro del concept da ascoltare tutto d’un fiato. Ma sul finale, una nuova tempesta, “The Pecan Tree”, piove nuovamente giù spietata. Con il classico schema vincente quanto banale delle tre parti e dei climax giustapposti. Prevedibile, ma fa il suo lavoro.
Sul finale i Deafheaven si giocano gli elementi fondamentali del loro sound, un’architrave black metal tra peculiari ritmiche e abuso di tremoli su cui si levano di tanto in tanto fraseggi e soluzioni affini a quelli di Mark Gardener o Kevin Shields.
Se non è roba che fa per voi, insomma, provate almeno a non farvi distrarre dagli urlacci.
83/100
(Piero Merola)
6 giugno 2013