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Ce le avete presente quelle ceste enormi supersconto nei supermercati dove ogni tanto si trovano inspiegabilmente dischi che sono insperati gioielli ma che nonostante questi casi isolatissimi solitamente sono piene di robe talmente inutili che non se le filano nemmeno gli autogrill?
Ecco, questa è la recensione di un disco che probabilmente, almeno per chi scrive, rientrerà presto nella seconda categoria. E se si scrive “presto” è perché agli Houndmouth non si dà nemmeno l’attenuante del tanto tempo passato dall’uscita del disco, come appunto gli scarti di chenesò l’Equipe 84 che finiscono a tre euro e novanta: gli Houndmouth sono già inutili ora, nello stesso momento in cui esce il loro disco d’esordio.
Ma non è giusto stroncare musicisti così, senza motivazioni. Perciò, ripartiamo con calma.
Per esempio dalle presentazioni: gli Houndmouth sono tre ragazzi e una ragazza, tutti americani, che come già accennato hanno appena fatto uscire il loro primo disco.
Il loro primo disco è riassumibile in poche identificabilissime etichette di genere: country – southern rock – americana. Pensate allo stereotipo di musica americana anni ’70 e penserete al disco degli Houndmouth. Non c’è nulla di nuovo, tutto è come ce lo si aspetta. Ci si aspettano i cori a quattro voci e ci sono, i saliscendi di entusiasmi e di momenti malinconici e ci sono, i pezzi da scena di film con macchina che corre sulla strada tutta dritta in mezzo al nulla e ci sono.
E prevedibili sono anche le influenze, di cui ci accorgiamo puntualmente dopo pochi secondi dall’inizio di ogni canzone: i Creedence Clearwater (ma spenti) qua, i The Band là, Pete Seeger qui, Kris Kistofferson lì.
Ma quindi plagio? Non esageriamo: gli Houndmouth non sono degli sprovveduti totali, e infatti eccoli piazzare in ogni canzone qualcosa che a primo orecchio sembra originale, fatto da loro. Nel caso specifico il singolone (di lancio si fa per dire) “One The Road”, che alla fine può passare senza che ci si possa lamentare eccessivamente – nel disco c’è ben di peggio, baciagomiti.
Arrivati al capoverso di chiusura, si finisce dando il giusto peso alle cose di cui sopra. E quindi, se per certi versi il disco in questione risulta a tratti intollerabile per il suo banale e prevedibile contenuto, per altri bisogna riconoscere alcune doti ai ragazzi americani, come il fatto che il loro lo sanno fare (suonare) abbastanza discretamente.
In definitiva, de gustibus: se “From The Hills Below The City” vi piace, non sono altro che affaracci vostri.
57/100
(Enrico Stradi)