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Jack Barnett è un giaguaro. Fiuto da predatore, si lascia guidare dall’istinto nell’intraprendere nuovi viaggi musicali che poi traspone in lavori discografici. Proprio come un felino è tremendamente aggressivo e questo suo comportamento si è riflettuto in maniera decisa e lampante in ogni passaggio dei precedenti dischi dei These New Puritans. Ora, ascoltando “Field of Reeds”, vi sembrerà tutto fuorché un disco aggressivo ma questa irruenza fa lo stesso capolino, celata solamente da un sottile velo di trombe, piani e archi. Rimarrete stupiti nel notare la disarmonia tra gli strumenti e come essi vengono utilizzati, il che costruisce una sorta di gioco ingannevole creato ad hoc dal compositore inglese e che effettivamente lascia il segno. Perché si, il desiderio più recondito di “Field of Reeds” è quello di proporsi in maniera vibrante ed energica e la cosa sorprendentemente riesce.
L’impatto di queste nove canzoni è poderoso: vengono abbandonate oramai definitivamente le chitarre e si assottiglia sempre di più il legame con le reminiscenze post-punk e rock che avevano contraddistinto “Beat Pyramid” e da cui il gruppo inglese si era già allontanato con il successivo “Hidden”. Per certi versi “Field of Reeds” può essere considerato come una prosecuzione del suo predecessore, con una differenza essenziale, l’abbandono di qualsiasi tipo di surplus sonoro per concentrarsi esclusivamente sullo studio del formato canzone. Questa ricerca si riflette su ogni singola traccia dell’album che prima viene fatta a pezzi e poi ricomposta a piacimento dal leader della band (Jack scrive praticamente tutto da solo).
Il minimalismo ricercato in questa nuova composizione impone un conseguente e necessario freno alla velocità dei pezzi che fa di “Field of Reeds” un disco molto più lento e disilluso dei precedenti e che accelera veramente in pochi passaggi (in realtà solo nella visionaria “Organ Eternal”). Il cambio di direzione s’intuisce fino dall’iniziale “The Way I Do”, canzone costruita su due accordi di piano a cui si aggiunge la eterea voce di Elisa Rodrigues (cantante jazz portoghese che collabora in numerosi pezzi dell’album) e poco altro.
Il maggiore pregio della band anglosassone sta nel saper collegare melodie celestiali e profonde come il blu intenso che emerge dopo il tramonto del sole, appena prima che l’oscurità avvolga la nostra visuale, all’uso di un piano o quello di una tromba o di un violino (si veda per esempio la meravigliosa “Nothing Else”, una sorta di sintesi di tutto quello detto fino ad ora con una coda di piano estremamente emozionante accompagnata dal risplendente duetto tra Barnett e la Rodrigues). Da questo ammasso d’idee e costruzioni inamovibili scelta migliore per un singolo non poteva essere quella che è stata fatta con “Fragment Two”, un po’ perché forse è l’unica canzone tra le nove che si adatta ad essere passata in radio, un po’ perché il suddetto pezzo è un piccolo capolavoro che mischia sapientemente le carte messe in tavola dal più recente rock alternativo (alzi la mano chi non riconosce un po’ di National o di Radiohead ascoltando questa canzone).
L’album continua inesorabilmente sulla sua via alternando momenti ambient alla Brian Eno come in “V(Island song)” ad altri dove l’ascoltatore non può non toccare con mano la profondità di ogni singola nota che gli si presenta all’udito (“The Light In Your Name”). È tangibile la grande ispirazione di Barnett che è insita in ogni passaggio del disco (dalla creazione alla produzione che è gestita dallo stesso Barnett assieme a Graham Sutton) e che in definitiva rende “Field of Reeds” uno degli album meglio riusciti e più interessanti di quest’anno.
78/100
(Jacopo Boni)
29 luglio 2013