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Come le folate di vento spazzano implacabili il selvaggio Cap de Creus, dopo mesi di attesa settembre ci sbatte sulla faccia il quarto disco dei Delorean senza troppi complimenti. Che abbia forse più senso parlare di un secondo episodio, se prendiamo per buono l’anno zero rappresentato da “Ayrton Senna” e la meravigliosa traccia manifesto “Seasun” – che riscriveva le traiettorie della band traghettandola oltre i confini nazionali dopo anni di semi culto – poco importa. Ci prendiamo questa nuova fatica con annesse le rotture sentimentali, i tempi scuri in fatto di economia nella soleggiata Catalunya e tutti quelli riflessi di cui l’album si fa portatore, nonostante si sposino con difficoltà con l’immaginario di feste infinite che hanno fatto la fortuna dei baschi di stanza a Barceloneta.
Mentre l’uscita di “Subiza” sapeva di vera e propria chiamata alle armi in vista dell’imminente verano 2010, non è un caso che “Apar” si affacci sui titoli di coda della stagione, quando l’aria dell’epilogo colpisce inesorabile annegandoti in un mare di malinconia senza ritorno. Ed è proprio su tale pastiche emozionale che vanno a planare le dieci nuove canzoni, mettendo da parte la frenesia estatica dei ritmi balearici e le massicce incursioni di piano house a favore di suoni meno ballabili ma più densi e organici. Dai campionamenti alle chitarre (tante chitarre da dover scomodare un certo dream pop – Lush, i Cocteau Twins secondo periodo) il cambiamento è notevole: meno immediatezza, forse, senza però perdere l’incisività nel saper riconsegnare il manuale perfetto per l’estate. Quella che dall’edonismo vira decisa sull’esistenzialismo, quella da vivere tutta di pancia senza paura di possibili delusioni.
L’incipit di “Spirit” corre su binari eterei che si aprono in squarci di luce abbagliante, facendosi più che mai manifesto del nuovo corso sonoro in equilibrio tra strofe ricche di melodie morbide e ritornelli – veri o abbozzati – che non fanno prigionieri (“Inspire”, “You Know It’s Right” e “Destitute Time”, che si avvale dei cori dell’amica Cameron Mesirow aka Glasser). La ritmica sostenuta e gli arpeggi di “Dominion” preparano all’ammaliante refrain, uno dei migliori dell’intera discografia, prima di abbandonarsi a una sferragliata elettrica decisamente figlia degli anni Novanta. Convincono meno l’ambient barocca di “Keep Up”, raccordo interlocutorio tra le due metà del disco, e la sperimentale quanto poco efficace “Your Face”. Semplicemente strepitose, invece, sono “Walk High” e “Unhold”. La prima ripesca in un solo colpo il meglio delle ballate uptempo a cavallo tra 80 e 90 impennando da subito dopo il falso attacco alla “Come Wander”, ed è intrisa di quella nostalgia canaglia che tanto sa di tramonti in preda allo spleen (“there’s no other light than the fading shadows burning inside us“).
Caroline Polachek dei Chairlift si prende invece interamente la scena sfoggiando un cantato cristallino su atmosfere celestiali che ti sollevano da terra: un momento talmente bello che vien voglia di piangere. Come la ragazza che hai conosciuto la sera prima e finisce invece per scomparire nel nulla, in preda al disegno anarchico di certe sceneggiature che solo l’estate sa regalare. Tocca a “Still You” chiudere il viaggio senza ridurre l’ampiezza dello spettro di suggestioni, perché a ogni notte segue una nuova alba piena di opportunità: via quindi verso altre conquiste, con quel retrogusto amaro che non intacca la possibilità di sognare in quello che ancora resta della stagione. Comunque vada, sarà stata tremendamente viva. E per questo indimenticabile.
77/100
(Daniele Boselli)
5 settembre 2013