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È dura quando hai un nome che per metà di chi non ti conosce fa pensare all’etichetta dei Joy Division. E che per l’altra metà fa pensare a Andy Warhol e ai Velvet Underground. Ancora più dura se ti formi nel 2005 per arrivare all’esordio in LP solo otto anni dopo. Perché intanto la banalità di alcuni magazine britannici non può che vaneggiare su accostamenti con le sonorità di quella Manchester dei primi anni Ottanta e analogie vocali con Nico. Giusto per passare il tempo e ammazzare l’attesa per l’esordio sulla lunga distanza. I Factory Floor sono nati a Londra da un’idea di Gabriel Gurnsey e Mark Harris, poi completati da Dominic Butler e, dopo l’addio di Harris, da Nik Colk Void.
L’ammaliante vocalist e chitarrista attuale compagna di Tim Burgess dei Charlatans è anche nota per una collaborazione con Cosey Fanni Tutti dei Throbbing Gristle che, come se non bastasse, ci dice qualcosa in più sui suoi gusti e ispirazioni. La loro estetica dark/wave (no, non passatemi il “post-industriale”) è tutt’altro che vaga come iconografia: approccio live, voci, drum machine, luci, colori, effetti, abbigliamento e quant’altro. Ma si sta pur sempre parlando di un gruppo avvicinato dalla DFA della premiata ditta Tim Goldsworthy/James Murphy in tempi non sospetti, con “Two Different Ways” e “(R E A L L O V E)”. Inflazionato? Non importa. Non sarà elettronica vera? Obiezioni da puristi. Perché le suite ossessive e incessanti dei Factory Floor, guardano alle lezioni del synth pop anni Ottanta come alle prime intuizioni tech-house d’annata con un impatto ai limiti del rave. Soprattutto dal vivo dove i groove assumono una dimensione di sfogo tribale che si sposa incredibilmente bene con la natura così opposta e algida dei synth e della voce alienata da musa Eighties di Nik.
Nell’esordio omonimo la natura contraddittoria e bivalente dei Factory Floor c’è tutta. Senza sorprese, per chi aveva avuto già modo di apprezzare l’altro brano già noto, “Fall Back”, altra suite ossessiva e ossessionata dal retrogusto EBM. Mi si passi il gioco di parole, meno DFA e più DAF. Un parto di quasi due anni, quando le registrazioni sono iniziate alla Mono House, nel loro deposito a nord di Londra, pur interrotte molto spesso da mini-tour e partecipazioni a festival di tutto il mondo. Tra parentesi impagabili, vedi nostro report del concerto pasquale di Torino nel 2012.
Mettere su un LP gli spunti nati da singoli, 12″ ed EP non dev’essere stato facile e la lunghezza dei tempi di gestazione lo certifica. Ma il trio londinese sembra funzionare molto bene anche in queste vesti. Non di immediata metabolizzazione, contiene anche “Turn It Up”, già pubblicata che ammicca all’house sospesa tra intuizioni passate e gusto per la produzione contemporaneo in piena logica DFA: “troppo vecchio per essere nuovo, troppo nuovo per essere un classico”. Arrangiamenti scarni e minimali, ritmiche secche e assassine, minutaggi da elettronica al di là degli intermezzi, l’LP va affrontato nella sua interezza, da “How You Say” fino a “Work Out” che accontenterebbero il divoratore di electro, l’appassionato di techno d’essai o i coetanei di Stephen Morris, noto e illustre estimatore, forse anche lui avvicinatosi alla band per via della parola Factory vicina al suo quadro di valori.
Dopo queste descrizioni si potrebbe pensare all’ennesimo gruppo britannico che prova a scimmiottare gli anni Ottanta. Posto che la morte delle sonorità da cui emerge la proposta dei Factory Floor non sia stata sancita da nessuno, un sano ascolto, incosciente, sincero e istintivo non potrà che convincere anche i non amanti del genere più scettici e nostalgici.
Se proprio non riuscite a vincere resistenze e costrizioni, pensate al nome contenente la parola Factory, risollevatevi, aprite la finestra, fate un respiro profondo e fingete sia ancora il 1981.
82/100
(Piero Merola)
11 settembre 2013