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Rimediare ai danni.
Ancora una volta ai Goldfrapp tocca inibire le tentazioni pop e fighette per riguadagnare i sorrisi di chi li aveva amati perché oscuri, rarefatti, algidi (in “Felt Mountain” del 2000 e in “Seventh Tree” del 2008).
Tre anni dopo il fiacco “Head First”, le cui insipide melodie modaiole avevano fatto perdere la pazienza a molti, esce “Tales Of Us”, con il quale il duo Alison Goldfrapp/Will Greogory torna a fare quello che gli riesce meglio: suonano un album notturno, onirico, in cui l’elettronica rimane quasi impercettibile e lascia spazio a lunghi respiri acustici, a tratti ariosi, sontuosi, epici.
Le dieci tracce del disco raccontano di personaggi fantastici o ispirati alla letteratura, storie che si intrecciano tra loro disegnando un ricamo elegante e raffinato, compatto, che forse lascia intendere un certo grado di maturazione artistica raggiunto dai Goldfrapp: mai come ora i suoni sono quelli giusti, tutto è come dovrebbe essere.
Dal primo pezzo “Jo” fino all’ultimo “Clay”, il disco scorre lento, meditato, orchestrale: fatta eccezione per “Thea”, quello che probabilmente non è altro che uno sfizio synth-pop anni’80, le canzoni mirano una dopo l’altra ad una sontuosità quasi cinematografica. E infatti è proprio nella collaborazione con la regista Lisa Gunning che il lavoro dei Goldfrapp si fa completo, del tutto comprensibile: il video di “Annabelle” è una meraviglia.
“Tales Of Us” non è quindi solo un disco allo zucchero pensato per fare pace con i vecchi ammiratori, ma forse segna la definitiva svolta nel percorso della band di Bristol: un punto e a capo deciso e consapevole degli errori commessi, il risultato definitivo di una maturazione artistica che si ascolta nei testi e nelle musiche: mai come ora il lavoro dei Goldfrapp suggerisce tanta compiutezza.
Per tutte queste ragioni un album come “Tales Of Us” meriterebbe un voto notevole, ma chi scrive rimane cauto. E lo fa perché non è ancora chiaro se la soluzione scelta dai Goldfrapp sia sincera del tutto: in fondo anche “Seventh Tree” sembrava volersi lasciare alle spalle i lustrini e il glam di “Supernature”, e invece con “Head first” Allison e Will ricascarono nel vizio delle musiche facilone buone sì e no per le pubblicità.
E quindi, se anche quest’ultimo disco non fosse altro che un (grandissimo, riuscitissimo) tentativo di ingentilirsi il vecchio pubblico, in attesa di lasciarsi andare (di nuovo, inesorabilmente) all’ennesima tentazione di mal riuscito pop da classifica?
72/100
(Enrico Stradi)
16 ottobre 2013