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Già all’epoca del grunge i Pearl Jam erano la band più americana e tradizionalista dell’ambiente. Si sentiva puzza di E Street Band, Jackson Browne e Tom Petty. Con gli anni passati tra fossili indie, filantropia e impegno sociale-politico e Vedder votato sempre più ufficialmente al folk cantautorale (delle sue ultime canzoni all’ukulele si poteva benissimo fare a meno) i fan storici hanno paventato il peggio. Il gruppo stesso se ne è accorto e alla vigilia dell’uscita di “Lightning Bolt” ha fatto sapere che il nuovo materiale aveva “qualcosa di punk”, che tornava alle origini e dialogava con i Pink Floyd.
Nessuno ci ha creduto naturalmente, i Pearl Jam non possono cambiare stile manco col coltello alla gola, suonano così da sempre, più per sostanza che per volontà. Eppure l’indizio parava scongiurare le soluzioni probabili più scontate e mosce. Tipo un disco di ballate acustiche rubate a Neil Young o un recupero pseudo intellettuale di Springsteen. L’ascolto mette in chiaro e formalizza il pregiudizio. “Lightning Bolt” è un disco che prova a ringiovanire il suono mettendo in campo qualche brano più veloce (“Mind Your Manners” è l’episodio più hard, non fatevi illusioni, un passo dietro troviamo “Infallible”), ma le ballate dominano ancora la scaletta e la rabbia di un tempo si è trasformata in matura indignazione democratica. La produzione non bada ai sentimenti alternativi, alla storia e a ragioni generazionali. Si butta proprio sul rock commerciale tagliando frequenze, disarmonie e rotture elettriche. In “Let The Records Play” si trova un po’ di funky e di allegria e il solito blues di seconda mano. “Sirens” è magniloquente e furbetta (ed è forse in questo caso che si possono citare i Pink Floyd, quelli morti e sepolti di inizio anni ’90). Con “Pendulum” i Pearl Jam cercano di confrontarsi con il reflusso shoegazing e, com’è facile intuire, non è cosa loro…
Non posso ascoltare cose del genere. Troppa ipocrisia. Sì, la band suona ancora bene. Belli i suoni di basso, i giri di chitarra di Stone Gossard. La voce di Eddie Vedder è inconfondibile ed espressiva come sempre. Si sente che s’intendono al volo e riescono a creare effetti drammatici tipici del rock anni ’90 con una semplicità totale. Magari i pezzi in contesto live potranno risorgere, trovare un senso qui forzato e bugiardo, che ne so… Ma tutto sa di pavida reazione. I Pearl Jam sono conservatori conciati da progressisti. Piccoli Lebowski col conto in banca meno gonfio del solito. Vecchietti annoiati che spacciano il vuoto per malinconia e l’aridità per serietà. In questo senso appare molto più onesto il cantante quando fa lo scemo da solo con l’ukulele. Lì Vedder è veramente finto. Finto fino in fondo. Qua fanno i Pearl Jam fintamente i veri e la cosa mi dà i nervi. Sono come Renzi. Rottamatori da rottamare.
50/100
(Giuseppe Franza)
3 novembre 2013