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Rock Carpet
(perché) anche l’occhio vuole la sua parte
How many drugs does it take to get you out of my mind, yeah? Qualunque cosa il buon Adam Green dovesse dimenticare, in quel 2005 quando lo vidi la prima volta sul palco era chiaro che le aveva proprio provate tutte. Non avevo idea di chi fosse, mi ero fidata di quel Dragogna su City che non sbagliava un consiglio e aveva dichiarato che quella sera sul palco del Rainbow arrivava New York e basta lamentarsi che Milano non è l’America, che diamine.
Dopo qualche annetto, Green è sempre la quintessenza di New York. Intorno al palco trovo tutte le facce, le fogge, gli stili, le lingue del mondo centrifugate alla velocità di Manhattan e restituiti agli occhi sotto forma di look talmente perfetti da far sospettare l’esistenza di un algoritmo segreto che neanche Snowden. Sono al Biko, dispersa all’estrema periferia dell’impero meneghino, e ho un attacco di ecumenismo inquietante. Aiuto.
Mi piace tutto quello che vedo. La portatrice sana di cofana di Moira Orfei, il gemello disperso di Alberto Fortis con frangia ultrafolta degna di miglior causa (e miglior profilo, dai, diciamolo!), il giubbino di jeans con dentro il finto montone bianco che non vedevo dall’esame di terza media e il tubino anni ’50 da comparsa di Mad Men. C’è l’esaltante sensazione che facciano tutti un po’ quel che gli pare col loro armadio. Tanto lo sanno che son bravi, chetelodicoafare, tanto bravi che i musicanti orbita Mtv attratti dall’onestissimo Francesco Mandelli, sparring partner di Green, passano del tutto inosservati.
Adam canta con la stessa noncuranza, che sarà anche studiatissima ma stasera, in questo clima da autumn of love,ho deciso che è pura spontaneità. Sul palco fa quello che gli pare: se gli riesce, bene, se no ride sgranando gli occhi e tu ridi con lui e quando si butta sul pubblico lo porti a spasso, perché no. Camicia piena di ruches da dandy inglese, giacca di velluto (ma non ha caldo??), cappello da cowboy: Adam ringrazia un sacco, beve altrettanto e per fortuna se no mi preoccupavo. Va bene darsi una ripulita, ma c’è un limite.
Mentre canta l’apologia di Jessica Simpson è evidente che sia autenticamente pazzo. Ma è quella bella pazzia da fuoco d’artificio di cui scriveva Kerouac sull’altra costa in un altro tempo. Quella che che ti fa sentire libero di esserlo altrettanto.
Dici poco.
(Silviaeffe)
foto instagram: @daianacosini
13 novembre 2013