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Ritornare nella mia casa antica è un po’ come farsi tombarolo che s’infratti in un tumulo etrusco e violi il silenzio dopo duemila di anni di ruggine. Quando una cosa è passata davvero, non è importante che siano trascorsi 20 anni o 20 secoli. La solita, bislacca patina di polvere copre i mobili e i libri e il piatto dello stereo, come solo lei sa fare. Pare che alcune assi di legno si siano imbarcate anzitempo; è la solitudine delle cose, si vede.
Scopro, nell’oscurità, il pilastro in cemento imbiancato in mezzo alla taverna, quella in cui incappai molte sere, tornando a casa storto. Se cerco bene dovrei trovare, e trovo, un verso scritto con una Bic nera: “I love myself better than you, I know it’s wrong, but what should I do?”, una falce di luce la illumina sempre, scappando dalla finestra bassa che dà sul giardino e sul viale illuminato, lì fuori.
Ora non ricordo nemmeno bene per chi l’avessi scritto, forse all’epoca l’impatto del grunge fu così forte che mi pareva giusto avere in dote un amore un po’ malato (anche se non è amore se non si ama bene). Prima di uscire, la sera, affondavo nel divano, e facevo tremare i quadri con “Nevermind”, al buio. Ricordo che arrivò la moda di indossare camicie a scacchi e jeans corti, un sollievo che spazzò via d’un colpo i detriti degli anni ’80, quelli da cui nessuno usciva mai vivo.
Tra cent’anni la frase di Kurt sarà ancora su quella colonna, come certi graffiti con cervi e orsi e cacciatori, nelle Grotte di Lascaux.
(Matteo Marconi)
21 febbraio 2014