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In “Tassili” avevo scoperto una musica pura, fortemente caratterizzata in senso storico e geografico, apera alle contraddizioni della globalizzazione, ma soprattutto arguta, melodicamente stimolante. Capita di rado, forse perché il modello estetico pop-rock anglosassone ha da tempo perso smalto e senso, oppresso dal marketing, dalle mode, dalle mode matematicamente impossibili (che non non raggiungono la moda neanche nel più relativo degli insiemi alternativi) e da modelli preformati di poetica abbastanza stanchi e sputtanati. Fatto sta che il penultimo dei Tinariwen aveva centrato con estrema precisione il punto della questione. Il gruppo sahariano, dalla lunghissima tradizione musicale, si era piegato anch’esso alla moda della contaminazione, buttandosi in studio per la Anti con Nels Cline e Kyp Malone dei Tv on the Radio, ma aveva conservato il buono delle melodie affilate del rai algerino, il suono realmente polveroso del blues desertico, la potenza dell’assouf chitarristico e tutto il mistero di suggestioni antiche, ermetiche e straordinariamente ispirate da the amaro e puzzolente nel deserto. In “Tassili” si respira apertura al mondo e allo stesso tempo espressione d’indipendenza, solitudine, diversità. C’è gioia di vivere, rabbia, dramma ed esoterismo, inteso come messaggio imperscrutabile, aperto solo a chi può capire, a chi ha vissuto le medesime esperienze. Non a caso il disco venne registrato nel deserto algerino, nei territori dei buduini, dove la band era nata nel 1979 e da dove si era mossa per raggiungere il Mali assecondando i pellegrinaggi del problematico popolo Tuareg.
Il nuovo lavoro dei Tinariwen ripete l’esperimento della contaminazione-isolata cambiando deserto. Da quello algerino il gruppo si è trasferito in quello californiano di Joshua Tree. Un luogo lo stesso ricco di potenza evocativa, fascino e misteri, ma completamente opposto sia geograficamente che culturalmente rispetto al l’hammada del Sahara, dove i venti graffiano il viso e tolgono il fiato. Con “Emmar” la band africana si avvale dell’aiuto di nuovi artisti occidentali: Josh Klinghoffer (il nuovo chitarrista dei Red Hot Chili Peppers), Matt Sweeny (Chavez), Fats Kaplin e Saul Williams. Si mette poi in campo una nuova soluzione armonica, sostituendo alla voce principale il coro, che caratterizza le composizioni in quasi tutta la scaletta. Ne esce fuori un blues più vicino al gospel, ma ancora sub specie aeterni, come assoluto estetico che racconta un significato profondo, un popolo, una cultura, dove lo spirito trova senso e produce effetti artistici di grande impatto drammatico. Questa è musica ancorata al passato, ma che ha il coraggio di evolvere e di migliorarsi tecnicamente (almento nel senso di pulizia della registrazione e qualità degli arrangiamenti).
“Emmaar” non ha nulla di più affascinante di “Tassilli”. Risulta persino meno pop e invitante del suo predecessore, ma perde anche qualcosa in termini di effervescenza. Non è un problema. Il risultato finale è sempre superbo. Uno spettacolo edificante che non è più esotico né etnico, ma soltanto musicale. Puramente musicale.
78/100
(Giuseppe Franza)
18 febbraio 2014