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In che senso le Warpaint non fanno esattamente la solita, desueta, psichedelia dei grandi padri del genere? C’è in effetti nel loro suono da sempre quel tratto di viaggio contemporaneamente abrasivo e materialistico da un lato, astratto ed onirico dall’altro, ma qual è la componente che le fa suonare così chiaramente contemporanee, che evita l’effetto dell’inattualità? “The Fool” non chiariva completamente la domanda, piuttosto sembrava porla con grande evidenza: anche perché si trattava in quel caso di un prodotto molto esteso e complesso ma non altrettanto definito e compatto, nel quale era possibile trovare delicate ballate allo stato gassoso come “Undertow” e a fianco densi e incalzanti pezzi dai modi dark come “Bees”.
Le quattro ragazze, al netto della precoce notorietà e degli ambienti frequentati fin dall’inizio, dal regista Chris Cunningham a John Frusciante, hanno comunque sempre coltivato l’autonomia e gli spazi necessari per la ricerca di un suono veramente loro. Adesso, a quattro anni da “The Fool”, dopo un ritiro bucolico sotto la guida del produttore dei Radiohead, e di Beck, Nigel Godrich (nonché del mestierante inglese Flood), le ritroviamo in questo album omonimo non tanto e non solo al loro meglio, quanto piuttosto in parte cambiate e più strettamente focalizzate su uno stile, uno schema, una cifra. Come dopo un lunghissimo punto della situazione. È del resto essenzialmente avvenuto quel processo di compattamento delle idee e del suono che sembrava necessario alla fine dell’ascolto del primo album, con la notabile aggiunta della sostanziale dissoluzione delle fughe lisergiche che le quattro probabilmente riservano alle esibizioni live. Se infatti “Disco // very” è un po’ la nuova “Composure” con quel suo aspetto quasi-funk, mancano i corrispettivi delle tracce citate i precedenza: il dualismo che viveva in “The Fool” è oggi, più che risolto, superato in una sintesi incarnata in pezzi come “Love Is To Die” e “Keep It Healthy”, uno psych-funk nebuloso, pop e immediatamente accessibile, ma complesso e stratificato. Una soluzione che, in modo non scontato, evita di pacificare e livellare la sofisticazione dei prodotti precedenti, ma la racchiude in un tutto segnato da una tensione positiva: dalla bella voce romantica di Theresa Wayman (talvolta dalle parti dei Blonde Redhead), ai bassi e alle percussioni ordinate ma non lineari di Jenny Lee Lindberg e Stella Mozgawa, una commistione di sensualità, armonia e rabbia, come una mistica orecchiabile. Meno pezzi simbolici come “Elephant”, immediatamente riconoscibili e virali, ma più struttura, armonia, densità.
È in ultima analisi questo che fa delle Warpaint un gruppo molto contemporaneo: l’insieme ormai fusionale di una sezione ritmica di stampo wave, con, come detto, qualche incursione nel funk e nel r’n’b, alla base di una psichedelia, dai toni sempre più gravi, ristretta in tempi e spazi propri della usuale canzone pop. Una messa a punto che è un avanzamento rispetto all’esordio, ma che non chiude a ulteriori evoluzioni, che non è dunque affatto un compimento. Quanto di meglio per un secondo album.
77/100
(Francesco Marchesi)
21 febbraio 2014