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A che siamo arrivati? Al sesto album? I We Are Scientists potrebbero essere, per quanto ne so, tra i gruppi più longevi e resistenti dell’ondata post-punk revival inizio 2000. Relitti da studiare. Sopravvissuti dal cromosoma camaleontico, molto furbo o molto stupido, e perciò in grado di assecondare l’evoluzionismo. Di quei gruppi lì è rimasto davvero poco. Chi si è sciolto, chi ha cambiato genere, chi è piombato nel dimenticatoio e chi è tornato a lavorare, chi sta in clinica a disintossicarsi… Quattordici anni sono tanti, come l’intera carriera di un calciatore professionista. E se non hai fatto il botto in quel lasso di tempo, qualche motivo ci sarà.
I We Are Scientists continuano a calcare i campi importanti perché il botto, per motivi imperscrutabili, lo hanno fatto, sia commerciale che critico. Sono arrivati ad alti livelli senza mai produrre un gesto da fuoriclasse, senza sudare o sacrificarsi e senza neanche troppa continuità. Hanno forse scelto l’agente giusto, o hanno saputo comprendere prima e meglio di altri quale campionato era meglio affrontare. Ragioni di obiettività, real-muzik. Che ne so.
Agli esordi i Noi Siamo Scienziati piacquero un po’ a tutti e, negli anni, hanno imparato a stare sul campo, pardon sul palco, trasformandosi in gruppo da festival estivo. Sin dall’inizio, però, io li catalogai come la classica college-rock band. Nel senso che erano proprio ragazzi del college che facevano musica per i compagni di corso secondo le mode dell’epoca che qualcuno ha preso e ha riproposto come nuovo fenomeno post-punk. Perché al tempo andava di moda un suono più tirato e veloce, con influenze che spaziavano dai Velvet Underground a James Brown, con le chitarrine in levare e qualche controtempo effervescente. Dettagli legati, forse, al ritorno in auge delle metanfetamine. Oggi le influenze, naturalmente, sono altre. I codici dominanti dell’indie rimandano al power-pop, allo shoegaze e alla coca pura. E “TV En Francais” non si fossilizza più di tanto, capisce le nuove regole, si scalda il minimo indispensabile e butta negli arrangiamenti tanto pop chitarristico, un giro più funky, un incrocio dritto da new wave simil-’80, e qualcosa di shoegazing.
Qui si bada al sodo, e si punta al risultato. Per questo serve ritornare all’eclettismo forzato dell’Inter di Hector Cuper e al sound d’oro dei tardi anni ’90, quando gli schemi erano gabbie da interpretare e mutare a seconda del vento. Allora, se ne avete memoria, l’indie rock diventava una cosa seria, quindi marcia e remunerativa. Bisognava però che fosse ammirata da gente figa e di conseguenza. Per questo tra gli ospiti scoprirete il cantante degli Ash (chi se li ricorda?) Tim Wheeler, e il gemello-clone di Doherty, quell’Anthony Rossamando che suonava nei Dirty Pretty Things. Ma c’è pure una delle Pipettes, miss Rose Elionor Dougall, oggi reginetta sofisticata dell’indie pop retrò. Tutta gente che tanto figa non era e che non credo lo sia diventata grazie all’oblio…
Gli anni ’00 e gli anni ’90, dicevamo… Dall’altro lato, però, bisogna anche assecondare la moda uscente, l’infinito ripensamento degli anni ’80 e della new wave neo-romantica. Gli scienziati non battono ciglio. Devono essere freddi. Distaccati. Lo impone la deontologia e l’epistemologia. Mai affezionarsi a una teoria, a uno schema o a un suono. Se non serve più, va buttato e sostituito col suo contrario. E così pure il sound sintetico e ammiccante dei devastanti Ottanta trova spazio nella nuova proposta del gruppo.
Questi gli ingredienti. E questi più o meno gli effetti dettati dalla pura serendipidità. E poi basta. Non c’è un umore predominante, un senso generale, un suono nuovo o vecchio rilevante da rivelare. Niente. Se no, non sarebbe più post-pop-post-punk-wave da scienziati.
30/100
(Giuseppe Franza)
31 marzo 2014