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Sono passati quattordici anni e sei album dal loro esordio discografico, e nella loro carriera gli Elbow sono riusciti a ritagliarsi un proprio spazio vitale nel variegato panorama brit-pop inglese, incuneandosi in mezzo a gente ingombrante come Radiohead e Coldplay. Non è facile crearsi una propria identità muovendosi in mezzo alla moltitudine di riferimenti dai quali si rischia di essere facilmente oscurati. In questa lunga lotta per la sopravvivenza Guy Garvey e compagni sono riusciti, nel corso degli anni, a gestirsi più che discretamente, fino a giungere all’apice delle loro capacità artistiche nel 2008 con “The Seldom Seen Kid”.
Nel 2011 esce “Build A Rocket, Boys!”, e qui diviene chiaro il progressivo distacco dalla concretezza in favore della creazione di atmosfere (manfrine?) incorporee (inconsistenti?). È questo il punto di partenza per “The Takeoff And Landing Of Everything”, un album in cui si è forse giunti alla saturazione del loro discorso artistico: si tratta di un ambiente suggestivo in cui vengono tratteggiate le dolci melodie cui ci hanno abituato, e che ha il pregio di lasciar cadere la pretenziosità dell’ultimo disco per dedicarsi all’essenziale. Ma questo non basta: “The Takeoff And Landing Of Everything” è anche un lavoro che suona ripetitivo sia al suo interno che in rapporto alla carriera della band.
L’album è pervaso da un sound avvolgente che accoglie l’ascoltatore e lo ammalia, ma non lo scuote e non lo conquista. Il brano d’apertura “This Blue World” e “Honey Sun” sono i paradigmi di tale sound, e quelli in cui il lirismo dei testi e la voce di Guy Garvey vengono più valorizzati; il resto del lavoro, in questi brani come in tutto l’album, viene svolto dalle eccellenti percussioni di Richard Jupp.
“Fly Boy Blue/Lunette” è un capitolo a parte: un gradito ritorno ad un rock più grezzo nella sua prima metà (risuonano “An Audience With The Pope” e “The Bones Of You”) e il volgersi in maggiore nella seconda parte per richiudersi nell’atmosfera onirica del disco. Un cenno merita anche la title-track che fonde tutti gli elementi del disco, li carica di energia e li fa esplodere, per dare un senso compiuto all’album. Da qui prende le mosse l’atterraggio, il brano di chiusura “The Blanket Of The Night”, che inizia con una intro orchestrale, sembra durare pochi secondi, tocca i suoi – e dell’album – vertici evocativi e sparisce.
La strada battuta dalle scelte espressive degli Elbow sembra essere giunta al termine: questo album è un punto di arrivo – viene il dubbio che ci si potesse fermare qualche passo prima – ed è necessario che Guy Garvey trovi nuove forme e mezzi per rimettersi seriamente alla prova.
65/100
(Pietro Di Maggio)
19 aprile 2014