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C’è stato un periodo, qui a Reggio Emilia, dove ci si credeva davvero, nella musica. Ognuno conosce le proprie decadi, e non posso assicurare per le altre, ma per quella degli Anni Novanta certifico io che qui, nel bel mezzo della provincia emiliana, c’erano un sacco di ragazzi che pensavano di poter diventare i prossimi Nirvana o C.S.I. Entrambi non hanno fatto una bella fine, a pensarci bene, ma questo è un altro discorso. Si era innocenti, e tanto tanto sognatori.
Ecco, in questa cornice io posso – e voglio – ricordare l’Enrico di quel periodo. Da quando c’erano gli Offlaga ci si incrociava di meno, e poi chi lo conosceva sa che carattere schivo e riservato avesse, però in quella Reggio “piccola Seattle” (negli anni ’90 lo dicevano un po’ tutti della loro città, e noi di Reggio non facevamo eccezione…) quel ragazzo mi aveva musicalmente molto colpito. Nel fare il fonico (“lui appena fuori dalla porta a fonicare”, diceva qualcuno) allo Studio Seltz, ti capitavano ogni tipo di band: quella più scalcinata, quella più trita e ritrita, quella che vorresti silenziare al momento, ma ti potevi anche imbattere in un “genietto” musicale come Enrico. Al Seltz, la sala prove comunale di Reggio Emilia, Enrico arrivò verso il ’97 o giù di lì con i Kathleen’s, e pensai immediatamente che era strano quel poco più che adolescente che, con i suoi compari, recuperava la dark-wave degli anni ’80, con bassi alla Cure e arpeggiatoroni. Nessuno suonava gli Anni ’80, in quegli anni. Stavano ritornando, incombevano, eppure erano ancora sostanzialmente un tabù, un qualcosa sempre e comunque da dimenticare.
Sarebbe facile dire oggi che era una band avanti, in realtà erano semplicemente degli esteti di un suono che avevano già capito che non sarebbe tramontato mai. Joy Division docet. Con anche una particolarità decisiva: il violoncello di Deborah Walker, un violoncello dal suono speciale trattato con tutti i delay ed effetti da chitarra possibili ed immaginabili. I Kathleen’s arrivarono alla finale del Terremoto Rock ’98, ovviamente non l’edizione che rese famoso Ligabue (lì erano 10 anni esatti prima), ma quella che vinse una band che poi non fece nulla di significativo e nella quale i Giardini di Mirò arrivarono terzi. Quella sera, allo spazio del cinema all’aperto di Correggio, abbracciando gli immancabili zanzaroni di quelle parti, pensai che davvero il futuro della scena reggiana fossero i Kathleen’s (non i GdM, che allora non capivo).
Poi i Kathleen’s si sciolsero, e la saletta B del Seltz iniziò ad essere bombardata, ed è davvero il termine giusto, dai Dargos. Il nome esatto è Grey Morris And The Dargos, ed erano soliti chiudersi in quella saletta minuscola al buio e giù di volumi pazzeschi. Facevano garage-surf, i Dargos, e non era una scelta proprio facile. Anche lì Enrico navigava sulle corde in una maniera che dire personalissima è poco, anche se nei Dargos era più gregario dovendo condividere la scena vera e propria con il Lungo. Non sono certo che l’immaginario visuale della band reggiana – quello fantastico di astronavine da film di fantascienza di serie Z degli Anni ’50 – fosse opera di Enrico, però iniziò probabilmente lì il suo amore per il lato anche grafico della musica. Per di più i Dargos furono la prima band che io mi ricordi che arrivò con la trovata geniale di essersi fatta l’etichetta propria: erano i primi anni 2000, si stava entrando nella Decade Indipendente, no?
I Dargos fecero una reunion nel caldo luglio del 2011: è bello vederli suonare en plein air ma io adoravo davvero il casino celestiale che usciva da quella saletta B.
Poi arrivarono gli Offlaga, che nacquero con Daniele che allora aveva i Magpie, ed Enrico si approcciò finalmente alla sua passione della prima elettronica kraftweriana, ma questa è storia che conoscono tutti. A me piaceva ricordarlo negli anni in cui tutti ci si sbatteva da semplici appassionati, e che hanno preparato la vera e propria carriera musicale di Enrico.
Che, come avrete ben capito, si meritava tutta. Enrico “ce l’aveva fatta”, ed ero contento che ci fosse riuscito lui che aveva i numeri (e in Italia, lo si sa, non è quasi mai così). Senza nulla togliere ai testi di Max e alle chitarre di Daniele, il cuore dell’estetica musicale degli Offlaga mi è sempre parsa in larga parte opera di Enrico. Per cui decliniamo al presente: Enrico “ce l’ha fatta”: chiunque – e per sempre – potrà ascoltare i suoi dischi con gli Offlaga, e noi della “città inutilmente bella” avremo anche perennemente nella memoria, come in una serie di immagini in loop, quell’Enrico vulcanico genietto che si aggirava sorridente al Seltz.
(Paolo Bardelli)
8 aprile 2014