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Sono passati dieci anni esatti da “They Were Wrong, So We Drowned” che insieme a “Drum’s Not Dead” li ha immortalati come uno dei gruppi contemporanei più originali e significativi. Ci si stupisce che dieci anni dopo, viste le parabole di molti loro colleghi, i Liars abbiano ancora qualcosa di nuovo da dire. Nel mezzo altri tre dischi, molto eterogenei come da loro tradizione, tutti molto validi. Senza mai cavalcare un trend, apparentemente deliranti, ma dal raffinato gusto estetico, sono sempre stati poco inclini al riciclaggio delle formule vincenti sperimentate in passato. Così anche questa volta Angus Andrew, Aaron Hemphill e Julian Gross provano a reinventarsi. Un’opera non facile, al settimo LP in studio, registrato ancora a Los Angeles. Pare che i tre ormai si sentano a loro agio nella città d’origine, passate le fascinazioni per Brooklyn o Berlino. L’età è quella che è, non sembrano avvertire più il bisogno di rinchiudersi in una casa nel bosco per dare vita a un album. Lo si avverte anche sul palco, dove le loro esibizioni sono ormai più assimilabili a quelle di performer avant più o meno pacati, molto più che da artistoidi schizzati avvezzi agli acidi.
Il cervellotico “WIXIW” si avventurava nei meandri della psiche come “Drum’s Not Dead” battendo però territori del tutto sintetici, tra suggestioni kraut, IDM degli albori e quelle sperimentazioni trasversali care ai Radiohead. “Mess” dalle prime battute suona come una reazione uguale e contraria all’introspezione del suo predecessore”. Suona molto più lineare e monocromatico di quei fili aggrovigliati multicolor che hanno invaso i social nella campagna promozionale di lancio. “Mask Maker” è un pugno nello stomaco con il suo incedere marziale. Sembra voler dire tutto con l’istinto, con un’accentuata propensione alla ricerca ritmica e un’attenzione al groove. Non è un album disco, la cassa a volte è troppo dritta, ma certamente non cavalca alcun filone dance di questi tempi. A tratti ricorda i conterranei e amici HEALTH. Nei momenti più furiosi deraglia in accidentati terreni EBM, con la voce di Angus che dal post-punk sconfina nell’elettronica nera e nel synth-pop più duro e psicotico degli Eighties (“Vox Tuned D.E.D.” e “Pro Anti Anti”). A loro modo i Liars stupiscono, con un sound plastico e pacchiano, freddo, dal retrogusto gothic, come in “I’m No Gold”. “Mess On A Mission”, singolo killer in piena tradizione Liars, ma con arrangiamenti in linea con la natura di “Mess”. Spacca il disco in due. L’unico episodio che rallenta le andature nella prima metà di “Mess”, in realtà, la precede ed è peraltro uno dei momenti più indelebili: la malata aria “Can’t Hear Well” fa intravedere la luce tra i cupi groove del lato A.
Nel lato B i Liars apparentemente scivolano in quel caos in cui sanno sguazzare amabilmente. Resta comunque un caso controllato, a dispetto di quell’istinto che ha segnato le registrazioni al fianco di Überzone, dj e producer big beat californiano. Il lato b è più difficile da digerire, ma presenta gli spunti più interessanti. Le chitarre ovviamente non esistono più nemmeno nella seconda parte, come già in “WIXIW”. A partire da “Darkslide” ci si immerge in frontiere anni Novanta care all’Aphex Twin più pacato e ambientale degli esordi. “Boyzone” va sulla stessa linea, ma c’è l’inconfondibile timbro da psico-licantropo di Andrew a renderlo un pezzo più Liars. In “Dress Walker” i bpm salgono, ma i toni sono dimessi e torbidi più in linea con “WIXIW”. Nonostante i tre abbiano più volte ribadito di aver cercato un approccio opposto, sembra che in qualche modo quel mezzo capolavoro dai più sottovalutato uscito ormai due anni fa, si sia appropriato dell’anima dei Liars. Succede anche nelle due sofferte suite di chiusura, “Perpetual Village” e “Left Speaker Blown” dove tra i deliri e le estasi sputati fuori da Hemphill e Andrew, si riconosce quella natura così gradevolmente instabile che li ha resi una band a suo modo unica.
L’album rischia di essere liquidato dai più per i toni a tratti troppo parossistici e diretti della prima parte, ma se i tre, come in passato avessero giocato meglio sulla sequenza dei pezzi e sulla traiettoria da dare al loro settimo “viaggio” più che su certe sonorità, “Mess” metterebbe ancora una volta il lustro il genio autentico, dissociato e più che mai irrequieto dei Liars.
78/100
(Piero Merola)