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“E vabbè, che sarà mai. Mica lavori in miniera!”. Chiunque si sia occupato di eventi artistici, quali che essi siano, sicuramente prima o poi si sarà imbattuto nella fatidica frase. È vero, indubbiamente lavorare nove ore al giorno sottoterra, con i miasmi tossici a infilarsi nelle narici e la carbone che ti annerisce i polmoni, deve essere più stancante, logorante e distruttivo di entrare in una sala cinematografica a godersi un film: ciononostante la vita quotidiana dell’accreditato a un festival presuppone uno stress fisico non indifferente.
Prendete la giornata appena passata a Cannes: tre film in concorso, di cui uno che si inerpicava ben oltre le tre ore di durata (Winter Sleep di Nuri Bilge Ceylan), Amalric e la Hausner in Un certain regard, una séance de minuit e via discorrendo. Per farla breve, l’unico modo di vedere tutto era scegliere di non vedere tutto: abbiamo quindi deciso di saltare Ceylan – di cui certo non ci sono state poi raccontate meraviglie – che con la sua lunghezza impediva troppe visioni, e alla fine abbiamo ceduto alla stanchezza e al fascino indiscreto della cena perdendo così anche Amour fou di Jessica Hausner, per il quale sono stati enumerati gli apparentamenti più disparati, tra chi citava Manoel de Oliveira e chi invece trovava relazioni con il cinema di uno tra Raoul Ruiz e Jean-Marie Straub. La giornata è iniziata nel peggiore dei modi, con lo scontro corpo a corpo con una delle visioni più deludenti di questa sessantasettesima edizione finora non particolarmente brillante: The Captive di Atom Egoyan conferma l’impasse creativa in cui il regista canadese ristagna oramai da un decennio. Thriller carcerario e poliziesco senza troppa inventiva e prevedibile nello sviluppo, The Captive ricicla le ossessioni autoriali di Egoyan (l’infanzia violata, la proliferazione di fonti video grazie alle nuove tecnologie) senza aggiungervi nulla, ma al contrario rimestando stancamente nel già filmato.
La mattinata è proseguita con una doppia visione di film fuori concorso: prima è stata la volta di The Salvation di Kristian Levring, omaggio danese allo Spaghetti Western non disprezzabile ma fin troppo legato ai cliché del genere – ottimo comunque il cast che annovera tra gli altri Mads Mikkelsen, Eva Green ed Eric Cantona –, cui ha fatto seguito l’ottimo Red Army, sapido e appassionante documentario che Gabe Polsky ha dedicato alla nazionale di hockey su ghiaccio sovietica a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, considerata universalmente la squadra più forte del mondo. L’altro colpo al cuore della giornata è rappresentato da La chambre bleue, gioiello di un’ora o poco più che Mathieu Amalric (forse il miglior attore europeo degli ultimi trenta anni, ma anche eccellente regista) ha tratto da un romanzo di Georges Simenon: un’opera spiazzante, in cui i dettagli giocano un ruolo di primaria importanza e si indagano con dolorosa lucidità le relazioni umane. Visto che, come si suol dire, “il tempo a nostra disposizione è quasi terminato”, i commenti su Relatos salvajes di Damián Szifron ve li mettiamo da parte per domani…
(Raffaele Meale)
17 maggio 2014