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Esistono giorni perfetti. Pochi, forse, ma ne esistono. La prova incontrovertibile di quanto ciò risponda a verità si è palesata il 21 maggio del 2014, tra le 16 e le 23 e tra il Palais des Festivals e la Salle Marriott. Nella prima, inforcati gli occhiali per la visione in 3D, 2300 accrediti fortunati hanno avuto in sorte di imbattersi nella visione di Adieu au langage di Jean-Luc Godard; nella seconda, all’ora di cena (mentre in molti rimanevano fuori dalla prima proiezione stampa di Mommy di Xavier Dolan), sullo schermo è apparso l’inconfondibile logo dello Studio Ghibli, nel quale troneggia in tutta la sua rotonda perfezione Totoro, e sono partiti i titoli di testa di IKaguya-hime no monogatari, ultimo parto creativo di Isao Takahata.
Da un lato la teoria del cinema ha fatto l’ennesimo passo avanti, sbalorditivo e incredibile come sempre quando si ha a che fare con Godard, e dall’altro la poesia dell’immagine in movimento e dell’animazione tradizionale hanno ribadito – qualora qualcuno ne sentisse ancora la necessità – la statura di primaria importanza di Takahata, fondatore nel 1984 dello Studio Ghibli insieme a Hayao Miyazaki. Risulta davvero arduo riuscire nell’impresa di descrivere due film così enormi, potenti, devastanti come Adieu au langage e Kaguya-hime no monogatari (la traduzione letterale sarebbe “La storia della principessa Kaguya”): per quanto si tratti di due opere estremamente diverse, quasi impossibili da paragonare, è evidente che ci si debba confrontare con loro come se si avesse a che fare con qualcosa di superiore e parallelo alla Settima Arte eppure allo stesso tempo così profondamente cinematografico da risultare immacolato, inattaccabile, per l’appunto “perfetto”. Due opere che creano nuovi presupposti allo sguardo, nuove ipotesi di visione, nuove tipologie di lettura, e che pure sono così “belle”, sic et simpliciter, da cullare e coccolare gli occhi dello spettatore. Pura poesia in movimento, libera, persa in se stessa, universale e dettagliata, gesto artistico che non ha bisogno di null’altro per giustificare la propria esistenza.
Addio la linguaggio, e addio anche alla principessa Kaguya, perché il rischio (il doloroso rischio) è che entrambi i film rappresentino anche il testamento artistico di Godard e Takahata, così come a Venezia era avvenuto per Miyazaki e il suo straordinario e incompreso Si alza il vento.
Cosa succederà a loro? Cosa succederà dopo di loro? Il rischio è che il cinema vada in direzione di scempi quali The Search di Michel Hazanavicius, presentato in concorso la mattina e per fortuna travolto e rimosso dallo strapotere dei due capolavori succitati. Ma purtroppo The Search, mefitico esempio di cinema nato già morto, retorico, prevedibile, sciatto e manicheo, esiste, e continuerà a esistere. Perché diranno che è un cinema di intrattenimento, emozionante, facile da comprendere per chiunque. Lo diranno, e a noi resteranno in mano solo le macerie di un’arte che dovrebbe fare del “meraviglioso” il suo principale punto di approdo. Ci rimarrà, almeno quella, la memoria. Per fortuna.
(Raffaele Meale)
22 maggio 2014