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Ogni volta che un festival volge al termine l’atmosfera si fa cupa e disadorna, rievocando il “Sobborgo che pare sempre in una giornata di una decomposta fiera” declamato da Giuseppe Ungaretti: la maggior parte degli accreditati ha già preso aerei, navi, treni, macchine per tornarsene da dove era venuta, le file per entrare in sala si sono dissolte come la pioggia infingarda e crudele che ci ha privati dell’Aïoli (il pranzo con il sindaco di cui abbiamo scritto in abbondanza nei giorni scorsi), il ritmo generale dell’andatura di chi si muove per la Croisette ha rallentato in maniera drastica, e il mercato dei film ha già chiuso i battenti.
Arrivano dunque i primi vincitori (l’ucraino The Tribe di Myroslav Slaboshpytskiy per la Semaine de la critique, l’inglese Pride di Matthew Warchus per la Quinzaine des Réalisateurs, l’ungherese White Dog di Kornél Mundruczó per Un certain regard), in attesa che la giuria capitanata da Jane Campion decreti una volta per tutte il conquistatore della Palma d’Oro. Considerando fuori categoria Adieu au langage di Jean-Luc Godard (cinema troppo oltre il cinema stesso per poter competere con il resto della truppa), i nostri preferiti rimangono sempre Still the Water di Naomi Kawase e Maps to the Stars di David Cronenberg, ma nel pomeriggio di oggi recupereremo il tanto discusso Mommy di Xavier Dolan, che ha folgorato buona parte della stampa.
Per una volta invece non faremo il tifo per il solitamente amato Olivier Assayas, che ha chiuso il concorso con Sils Maria nel peggiore dei modi: un’opera asettica, che vorrebbe raccontare il dramma di un’attrice in crisi di identità – muovendosi dunque in direzione di opere come Eva contro Eva di Joseph L. Mankiewicz, Le lacrime amare di Petra von Kant di Rainer Werner Fassbinder e La sera della prima di John Cassavetes, punti di riferimento troppo alti per essere anche solamente avvicinati – ma finisce per parlare del nulla. Una delle delusioni più cocenti e inaspettate: anche se l’ispirazione di Assayas da tempo sembrava recalcitrante era davvero attendersi un’opera così anodina, stracca, prevedibile eppure ostinata nella ricerca di una autoreferenzialità criptica. Si salva solo la messa in scena, come sempre accurata, e l’interpretazione delle protagoniste (Juliette Binoche, Kristen Stewart e Chloë Grace Moretz). Un po’ poco…
Senza più opere del concorso da vivisezionare, abbiamo dedicato il resto della giornata a (re)visioni di classici del passato: in Salle Buñuel è stata proiettata La paura, una delle opere meno note di Roberto Rossellini e ultima condivisione artistica tra il regista e l’allora consorte Ingrid Bergman. Il cinema di Rossellini ragiona sul crollo dell’Europa mescolando la propria abituale ricerca artistica con un intreccio a pochi passi dal giallo. Forse non tra le vette di Rossellini, ma sempre imperdibile. Così come imperdibile è stata la mastodontica visione di Tōkyō Orinpikku di Kon Ichikawa, tre ore tre di pura elegia dei giochi olimpici di Tokyo nel 1964. Una gioia per gli occhi, in un tripudio di colori per una copia restaurata in maniera mirabolante.
Per finire, dopo cena, abbiamo incrociato sullo schermo del Cinéma à la plage i titoli di coda di Pulp Fiction, presentato in una copia 35mm portata appositamente da Quentin Tarantino. E abbiamo sussultato di emozione, come sempre.
(Raffaele Meale)
24 maggio 2014