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Dovete sapere che nei primi dieci anni di vita il mio più grande interesse era la geografia: capitali del mondo, statistiche varie, bandiere delle nazioni, e densità, cioè la quantità di popolazione inversamente proporzionale all’area abitativa. Sfrutto questo diverso linguaggio perché il nuovo lavoro di King Of The Opera si potrebbe leggere così, come una Singapore (per la cronaca, 7300 abitanti per chilometro quadrato) nel mappamondo dell’indie-rock nostrano. Venti minuti pregnissimi di vocalità amene, chitarre scure e arrembanti, umori scanditi dalla ricorrenza del pianoforte, infine suggestioni elettroniche.
Naturale evoluzione di un percorso di ricerca iniziato con “Nothing Outstanding” ma anche parallelamente con le produzioni anni dieci dei Julie’s Haircut (il loro Andrea Rovacchi qui è nelle vesti di coproduttore), “Driftwood” è ipnosi (e catarsi) allo stato puro. Letteralmente “Il legname trasportato dalla corrente fino alla spiaggia”, viene concepito dal gruppo di Alberto Mariotti come un unico flusso di coscienza da dividersi in tre movimenti. Una metafora della deriva dell’uomo, sia fisica che interiore, che collegherei nell’idea di fondo ad un romanzo che ho letto di recente, “Racconto Di Un Naufrago”, a firma del compianto Gabriel Garcìa Marquez, datato 1970.
Il riferimento non è del tutto casuale, se è vero che proprio il decennio settanta c’entra non poco nelle derive sonore di questo EP: dai Pink Floyd di “Meddle” ai King Crimson di “Islands”, dalla doppietta “Lorca/Starsailor” a “Before And After Science” di Brian Eno. O quella stasi sonora peculiare degli ultimi Talk Talk e dei Bark Psychosis. Il tema di “Counting Shadows” poi, ti entra dentro e scava nel passato e nei ricordi per ritornare alla luce, in quell’ultimo momento di “Driftwood”, con un rintocco di sveglia che significa capolinea del nostro viaggio.
Sani, salvi, soddisfatti.
76/100
(Matteo Maioli)
28 maggio 2014