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Sono la reunion dell’anno, c’è poco da fare. E nella settimana in cui gli Slowdive suoneranno al Primavera Sound di Barcellona (venerdì 30 maggio al Parc del Fòrum, Palco Sony, ore 21:40-22:40), Kalporz si butta a capofitto nel “gioco” delle 7 più belle canzoni della band di Reading. La vostra classifica come sarebbe?
7. “Dagger” (da “Souvlaki”, 1993)
È la canzone che chiude “Soulvaki”, ed è anche il brano più intimista del disco. Un finale praticamente perfetto. L’arrangiamento quasi minimale, senza più le chitarre shoegaze, mostra in pieno tutta la melodia e le capacità di songwriter di Neil Halstead. Quasi come se fosse un viatico per il disco successivo e, in parte, per i Mojave3.
(Francesco Melis)
6. “Melon Yellow” (da “Souvlaki”, 1993)
Nei primi anni Novanta gli Slowdive, distanti anni luce dalla catarsi sonora – a suon di feedback e distorsioni – dei My Bloody Valentine e dal frastuono space rock di fine anni ottanta (Loop, Spacemen 3), riprendono sostanzialmente il filone pop della Sarah Records e (di alcune produzioni, Cocteau Twins su tutti) della 4AD e la stravolgono in chiave ambient. Non a caso, in “Souvlaki”- secondo disco del gruppo di Reading – vi partecipa Brian Eno ( ascoltasi le tracce “Sing” e “Here she comes”). In” Melon Yellow” , apice atmosferico dell’album, non vi è contenuto melodico preminente, come nella miglior tradizione dell’ambient music il ritmo è lento e tende a dilatarsi all’infinito. Vi è, da parte degli Slowdive, uno studio attento della forma canzone pop, che assume una nuova forma e di conseguenza una nuova funzione: viene abbandonata la formula del chorus facile e si cerca l’unione umorale/ambientale tra musica ed ascoltatore.
(Monica Mazzoli)
5. “Blue Skied An’ Clear”, da “Pygmalion” (1995)
Nel 1995 il tempo per gli Slowdive è già finito: Neil e Rachel lasciano Reading, uno si mette a fare i giochini con l’elettronica e la techno, e l’altra magari la dog sitter part-time (chissà), la loro etichetta preferisce badare all’astro nascente degli Oasis, i produttori che chiedono addirittura un disco pop. La storia del loro ultimo album “Pygmalion” è insomma una storia che finisce male, così come era iniziata: è il disco che racconta al mondo che gli Slowdive hanno deciso consapevolmente di esaurirsi, inventandosi un suono etereo e immateriale sparso tra l’ambient, il post-rock, un’infinità di loop e gingilli digitali.
Un fallimento programmato, che riuscì comunque a fare scuola per quelli che vennero dopo: nove anni più tardi, passati gli anni Novanta e scavallato il Duemila, viene dedicato a “Blue Skied An’ Clear” – la canzone forse più importante di Pygmalion – un album di cover suonate dai più brillanti protagonisti della scena elettronica intimista degli anni zero, Mùm e Lali Puna sopra gli altri.
E da qui in poi è un’altra storia.
(Enrico Stradi)
4. “Avalyn” (da “Slowdive EP”, 1990)
Un arpeggio al rallentatore, atmosfere cariche di malinconia e deflagrazioni improvvise. La proposta degli Slowdive, neppure ventenni ai tempi dell’eponimo singolo d’esordio, trova in Avalyn una quadra che li proietta subito come alfieri di un dream pop distorto e di spiccata sensibilità melodica. Difficile non essere conquistati dall’incedere lento e stratificato, con la voce di Rachel Goswell che si eleva dagli intrecci di chitarre come il canto di un angelo nel buio. Cinque minuti di pop sospeso in aria che allargano lo spettro di un suono tutto britannico dalla parabola breve ma artisticamente imprescindibile. A più di vent’anni da allora, la magia di quegli echi è ancora immacolata.
(Daniele Boselli)
3. “Alison” (da “Souvlaki”, 1993)
Lo shoegaze è un termine di cui spesso ultimamente si abusa. “Alison”, brano d’apertura del capolavoro “Souvlaki” più di tanti altri brani degli Slowdive ne rappresenta la quintessenza. Il semplice ricordo del primo ascolto fa ancora venire i brividi, dopo anni. Voci melliflue, melodie vocali edulcorate ed eteree letteralmente travolte da un flusso liquido e impalpabile di chitarre messo in piedi da Neil Halstead e Rachel Goswell. Abbassate i volumi, staccate la corrente: avrete un distillato di puro pop dalle venature folk (che non a caso Neil Halstead ripropone spesso dal vivo nei suoi show acustici). Alzate i volumi, ricollegate la chitarra alla corrente e su con overdrive delay, echo, riverberi, tremolo e un tocco sempre morbido: avrete gli Slowdive.
(Piero Merola)
2. “Souvlaki Space Station” (da “Souvlaki”, 1993)
Alcune persone, tra cui chi scrive, che non amano la decadenza, in particolare quella di gruppi che hanno profondamente amato. Poi però ci sono band per le quali è difficile distinguere chiaramente ascesa e declino, band che si muovono in uno spettro tra il controverso e lo sfigato. “Souvlaki” per gli Slowdive rappresentò senza dubbio l’inizio della fine, album colpevolmente estraneo, nel 1993, all’esplosione di quel brit-pop oggi (forse) pericolosamente di ritorno. “Souvlaki” non è però affatto un album decadente, ma un disco stratificato, denso di canzoni bellissime come “Souvlaki” Space Station: una ascensione. Gli Slowdive però sono una di quelle band.
(Francesco Marchesi)
1. “Catch The Breeze” (da “Just for a Day”, 1991)
Sei settimane per fare la storia. Queste le tempistiche di gestazione di “Just For A Day”, Full Length d’esordio del quintetto di ventenni di Reading. Praticamente, Rachel Goswell e soci non avevano alcuna canzone completa prima di entrare nei Georgetown Studios, Oxfordshire. Ma la priorità di Alan McGee era quella di riempire il buco creatosi dopo l’uscita di “Nowhere” dei Ride e nell’attesa infinita per la release di “Loveless”. Lo stesso loro agente Mike Mena li vedeva come dei moderni Pink Floyd e credeva in un grande riscontro in suolo americano, dove però la campagna pubblicitaria a supporto dell’album non coincise con la sua data d’uscita: tutto sembrava girare storto. Eppure una canzone come “Catch The Breeze” prospettava qualcosa di speciale: una melodia soffice e voci celestiali nel decollo, una tempesta sonica all’atterraggio. Con lo sticker sulle copertine del disco a rammentare “Like a mind altering substance, without the risk”. Già grandi.
(Matteo Maioli)
25 maggio 2014