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Che i Black Keys avessero voglia di scrollarsi un po’ di dosso quell’incazzatura blues polverosa distintiva dei loro primi album si era ben capito con “Brother” e “El Camino”. Catchy pop con ancora incursioni di batteria dritta e ombreggiature blueseggianti, “El Camino” ha avuto anche la facoltà di trascinare il gruppo nell’ambito mainstream ma non troppo, in ogni caso più popoloso di pubblico con gusti più “immediati”. Poi la banale crudezza della vita (tra le altre cose un divorzio, quello di Auerbach, gonfio di reciproche accuse infamanti e amare) e un titolo come “Turn Blue” diventa indicativo nell’idea di quello che ci si può aspettare dal nuovo lavoro del duo americano.
Un disco che si apre con una suite di quasi sette minuti che già trasuda riflessione e sofferenza. Un passaggio del ritornello che ripete “Don’t give yourself away to the Weight of Love” pare un consiglio programmatico. Non si sentono neanche più gli ammiccamenti poppeggianti di “El Camino”, sebbene la scelta di “Fever” come anteprima del disco abbia potuto trarre qualcuno in inganno.
La bravura dei Black Keys in questo ottavo lavoro di studio sta in un’evoluzione disciolta nella crescita compositiva che porta il blues, il rock e la psichedelia (ricordando per assonanze i ’70s e certe produzioni degli Eagles), ad altissimi livelli: la title track “Turn Blue” ne è un esempio.
Sia la chitarra di Auerbach che la batteria di Carney sono state smussate, a tratti sopraffatte, nell’impetuosità quasi aggressiva (eccezion fatta per “It’s up to you now”), senza però far perdere forza e carattere ai pezzi. Per chiarire il concetto, il blues c’è sempre, ma più come atteggiamento che come canovaccio tecnico di genere.
Ancora troviamo le tastiere e i cori, che fondamentalmente avevano rappresentato la “facilità” del lavoro precedente, questa volta con una declinazione quasi eterea da ricordare le sensazioni ovattate di “Horse with no name” degli America. Mi riferisco in questo caso a “Weight of love”.
Per semplificare il compito comprensivo aggiungiamo che anche le strizzatine d’occhio alle cavalcate soniche (“Bullet in the brain”) di gruppi come Black Angels o Tame Impala risultano in “Turn Blue” assolutamente strutturali e finalizzate alla definizione di determinati stati d’animo, anche senza seguirne o comprenderne più di tanto i testi.
I ragazzi di Akron (Ohio) gioco forza sono diventati uomini. L’anima blues pervade ancora e sempre tutto il disco, ma stavolta si intreccia ad un pop decisamente meno pret-a-porter. Come trovarsi in una casa dove i mobili sono lucidi e patinati sulle grandi superfici, ma sdruciti ai bordi e l’aria è così gonfia e densa di intensità fumosa da sbriciolarti il cuore. Forse perchè anche Danger Mouse c’ha messo lo zampino.
Tranquilli però, che né si soffoca né si soccombe. “Gotta get away” e si ricomincia.
78/100
(Elisabetta De Ruvo)
13 maggio 2014