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Nel febbraio scorso se n’è volato via, come tanti, in un incidente stradale. Francesco Di Giacomo è stato una delle massime incarnazioni di quell’inscindibile connubio di ingenuità e cerebralità che costituisce il fascino del cosiddetto progressive rock. Nei suoi testi, suoi e talvolta di Vittorio Nocenzi, erano commisti innocenza e impegno, poesia e realismo; in ogni caso smentivano senza possibilità di replica il luogo comune che voleva quel genere musicale sostanzialmente disimpegnato e avulso dalla realtà.
Il malinteso, non sempre involontario né privo di malizia, ha origini antiche. Già nei giornali coevi ai primi vagiti del prog, quelli non specialistici, serpeggiava più o meno sotterraneo il teorema che, basandomi su un articolo de “L’Unità” letto qualche tempo fa, definirei “dell’evasione e del volo”. Una sorta di evasione lisergica dall’esistenza di cui “In volo” del Banco del Mutuo Soccorso sarebbe esempio emblematico. L’equazione che ci sta sotto è: il prog sta al rock come il fantasy sta alla letteratura. A saper leggere, il volo dell’ippogrifo cavalcato da Astolfo che, si deduce, trasporta un “messere” in cui sarà da identificare l’ascoltatore, ha un significato molto più complesso e raffinato: “da qui messere si domina la valle, ciò che si vede è”… Astolfo ci porta in alto non per farci fuggire dalla realtà ma per vederla, e capirla, meglio. “Là dove gorgoglia il tempo”, il nostro tempo. Per Di Giacomo il fantastico è un mezzo per esprimere il concreto. Persino ne “Il Giardino del Mago”, l’imponente e onirica suite del Banco, il fantastico “ariostesco” che la intesse è una metafora: della follia? Del disagio mentale e sociale? Di Giacomo ci parla sempre di noi, non di super-uomini wagneriani alle porte di Asgard. “Non mi rompete” è un elogio del sonno – e del sogno – liberatorio di chi sa di dover tornare ai dolori quotidiani. Quei dolori dai quali il mondo (mentale?) parallelo del giardino del mago parrebbe offrire riparo definitivo. Il “non mi svegliate” non esprime fuga ma consapevolezza. Quella consapevolezza politica e sociale che esplode in pezzi come “Canto nomade per un prigioniero politico”, denuncia del golpe cileno di Pinochet, o “Niente è più lo stesso”, sofferto e potente canto di un reduce di guerra che ritrova la sua terra – dove “sui canneti volan basse le cicogne e versano il candore delle piume dentro i campi acquitrinosi” – ma ormai “è morto dentro”, e maledice quella che i potenti e i capi dalle “lingue gonfie, pance piene” chiamano “giusta guerra”.
Dalla scienza della teoria evoluzionista darwiniana all’ironico e affettuoso sguardo sull’omosessualità in “Paolo Pa”, anche nei risultati meno convincenti o controversi l’arte di Francesco Di Giacomo, di Vittorio Nocenzi e del Banco ha quasi sempre puntato l’obiettivo sull’uomo, rivestendolo di poesia, perché “lontano è la strada che ho scelto per me, dove tutto è degno di attenzione perché vive, perché è vero, vive il vero”.
(Federico Olmi)
23 giugno 2014