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Andy Butler è una figura di spicco nel panorama house internazionale. Una figura consacrata sin dal debutto del suo progetto Hercules & Love Affair nel 2008 con l’album eponimo, e in particolare con il singolo “Blind” scritto con (e interpretato da) il talentuoso Antony Hegarty, che ha attirato da subito molta attenzione.
Grande ammiratore del compianto maestro Frankie Knuckles – the godfather of house music, morto lo scorso marzo – che aveva pure realizzato su sua richiesta un remix della stessa “Blind”, Butler si è sempre dato una missione: portare avanti le forme della house primordiale riempiendole di venature di volta in volta attuali; tracciare una linea dagli anni ’80 al presente con cui sedurre le nuove generazioni e accontentare le “vecchie”. Per portarla a termine si è sempre accompagnato a vocalist, produttori e tecnici d’eccezione (oltre al già citato Hegarty, Nomi Ruiz, Mark Pistel, Kim Ann Foxman).
Pare che Andy ritenga ora, al terzo album e a sei anni di distanza, conclusa la sua missione. “The Feast Of The Broken Heart” suona come un nuovo manifesto di intenti, il cui postulato fondamentale è “la house music non invecchia mai”. Il programma di rielaborazione di questo genere si è concluso, ora resta solo la volontà di resuscitare la house: non infonderle una nuova vita, ma restituirle quella di prima.
Un’operazione un po’ violenta e un po’ ingenua.
Ed ecco qual è il suono del nuovo album. Più violento e aggressivo rispetto alle uscite precedenti, ma anche più ingenuo. E non ingenuo nel senso di quella naïveté cui aspira Butler, di un ritorno alle idilliache origini delle serate al Warehouse di New York, ma ingenuo nelle sue intenzioni un tantino velleitarie: le atmosfere (ri)create si sforzano di apparire autentiche, danzano sinuose come un tempo, ed in certi frangenti particolarmente riusciti ingannano alla perfezione.
È il caso del brano d’apertura “Hercules Theme 2014”, che recupera le sonorità ritmiche di “Hercules Theme” del 2008 piegandole alle nuove esigenze, e introduce bene al disco; di “I Try To Talk To You”, in cui spicca la voce di John Grant; delle suggestioni garage di “That’s Not Me”; del mix irresistibile di bassi, synth e fiati dell’eccellente chiusura, “The Key”.
Ma l’incanto è momentaneo, e cede spesso il posto ad un sapore nostalgico, che pervade la maggior parte del disco: si parla in termini strettamente matematici, per l’esattezza sei brani su dieci, tutti bene o male gradevoli, ma tutti che insistono un po’ troppo sugli stessi punti, senza aggiungere nulla ai quattro citati che a mio parere costituiscono lo zoccolo duro dell’album.
“The Feast Of The Broken Hearts” è un ottimo lavoro di produzione, tecnicamente impeccabile.
Ed è un’uscita imperdibile per i fan della house, una “testimonianza” delle sue forme originarie e una sfida – indubbiamente vinta – di esaltare i dance floor utilizzando ancora oggi questo linguaggio.
68/100
(Pietro Di Maggio)
16 giugno 2014