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Dell’importanza del terzo disco, del terzo disco come il disco della maturazione di una band, del terzo disco come segno della fine degli esordi: su tutta questa roba si discute da chissà quanto tempo, e lo si farà anche ora nel recensire l’ultimo album, il terzo appunto, dei The Pains Of Being Pure At Heart, “Days Of Abandon”.
È passato tanto tempo dal 2009, quando il primo disco omonimo fece piangere di gioia nostalgici dello shoegaze di Jesus And Mary Chain, Cure e Slowdive: nel frattempo quel modo di suonare è diventato di molti, e i Pains non sono più i primi sulla lista. A dirla tutta, a scalzarli dalle prime dorate posizioni dell’hype sono stati gli stessi gigantoni ai quali si ispiravano: ora per esempio gli Slowdive si sono messi a suonare di nuovo, pazzesco ma è così.
E sembra paradossalmente essere passato ancora più tempo dal 2011, quando il loro secondo disco “Belong” convinceva praticamente tutti: lì dentro le canzoni erano bellissime e dolcissime, e le si apprezzavano ancora di più perchè i suoni sullo sfondo erano ancora più distorti e appuntiti di prima. “Belong” era proprio la prova che i Pains erano bravi sul serio e il primo disco non era un proverbiale fortunato primo episodio da principianti: le cose non potevano che decollare da lì in poi.
Invece deve essere successo qualcosa di diverso, perchè questo “Days Of Abandon” già dai primi ascolti suona molto più levigato e pulito dei dischi di prima.
Sappiamo che della band originale sono rimasti solo in due, Kip Berman e Kurt Feldman, ma oltre a questo i Pains sembrano aver cambiato modo di fare le canzoni, e a dircelo sono pezzi come “Art Smock”, “Simple and Sure”, “Life After Life” e soprattutto “The Asp at My Chest”, che cercano di mescolare tutti insieme le somiglianze agli Smiths, i nuovi tentativi acustici, i piccoli esperimenti con cose che fino ad ora non si erano mai sentite tipo i fiati, che ingrassano e inciccioniscono in modo a dir poco sorprendente il suono del disco.
Forse per non destabilizzarci troppo, c’è qualche pezzo palliativo: “Coral and Cold” e “Until The Sun Explodes” suonano alla vecchia maniera, con le chitarre che tornano ad essere un po’ più sporche, ruvide, distorte: per quello che mi riguarda, mi consolano un po’. Ma ci metto poco a realizzare che si tratta comunque di omeopatia, o se volete essere più realistici forse non sono altro che specchietti per le allodole – e io sono l’allodola.
“Days Of Abandon” è insomma un disco che come da titolo arriva per lasciarsi alle spalle la storia di quello che c’era prima: i nostalgici impazziti per gli anniottanta, lo shoegaze, i Cure, gli Slowdive, i Jesus And Mary Chain, le canzoni al caramello e contemporaneamente appuntite, le chitarre distorte, quelli come me che ascoltavano “Young Adult Friction”, “Belong” o “Heart in your Heartbreak” col volume molto molto alto.
I The Pains Of Being Pure At Heart hanno deciso di cominciare a suonare in un altro modo, molto più pop, morbido, meno appuntito. Forse sono diventati grandi e saggi e noi no, oppure adulti e imbruttiti e noi no: viene proprio da chiederselo.
73/100
Enrico Stradi