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Sembra quasi di essere di nuovo a cavallo tra i ’90 a gli anni ’00.
“Reachy Prints” ci restituisce i Plaid così com’erano: profondi, introspettivi, capaci di declinare l’lDM verso quella forma dolce, ricca di venature e particolari, sulla quale hanno impresso il loro marchio. Un suono da rivoluzione elettronica, ma certamente meno spigoloso di quello di altri pionieri del binomio Warp – Rephlex.
È “Slam” che fa subito capire come stanno le cose: un flusso che ci riporta a quando Andy Turner ed Ed Handley, in fuga dai più ruvidi Black Dog, si rifecero il trucco per migrare, definitivamente, verso il progetto Plaid.
Di nuovo e che profumi particolarmente di avanguardia, in “Reachy Prints”, non c’è niente o quasi; di bello c’è molto, quasi tutto. È un album che sta lì proprio per farsi ascoltare e riascoltare, senza nessuna fatica. Per ricordare, testimoniare, celebrare.
Da “Tether”, che incede geometrica e sembra presa direttamente delle due compilation “Artificial Intelligence”, alle aperture di “Hawkmoth”. Dal delicato ed ordinato crescendo di “Wallet”, alla “braindance” di “Martin Lunaire”. Incantevole e degna apertura per l’intero album, l’iniziale “OH”.
Un omaggio, quello dei Plaid, a quegli anni, gli ultimissimi ’90 ed i primi ‘2000, in cui, grazie a loro e ad altri, si solidificò la cultura elettronica che ancora oggi rappresentano e alla quale fanno riferimento. Un omaggio alle cose belle, che non necessariamente devono essere cambiate solo in funzione del tempo che passa.
Se siete dei nostalgici, cercate di averlo a tutti i costi. Se non conoscete i Plaid, cercate di averlo a tutti i costi. In questo secondo caso, oltre a “Reachy Prints”, ascoltatevi anche “Rest Proof Clockwork” (Warp, 1999), “Double Figure” (Warp, 2001) e “Spokes” (Warp, 2003). Da non perdere, per aggiungere qualcosa alla rassegna, la compilation di remix “Parts in the Post” (Warp, 2003).
84/100
Tommaso Artioli