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Fa sempre strano andare a vedere dal vivo due decenni dopo una band di culto scomparsa nel nulla.
Vale anche per gli Slowdive che hanno prodotto più imitatori e seguaci di quanto abbiano prodotto in termini di pezzi e album in mezzo decennio di storia. Era una caratteristica tipica delle band considerate, con un’espressione odiosissima, seminali. Una di quelle band che metà degli ascoltatori attenti considera inutili e un’altra metà considera fondamentali. Del termine shoegaze si è abusato, gli stessi Slowdive per quanto considerati quintessenza del filone, si defilavano spesso e volentieri dallo shoegaze nei momenti più dream-pop, da unici discendenti dei Cocteau Twins della seconda fase.
Fa strano, fa stranissimo vederli in data unica italiana a Padova, città che fino a qualche anno fa era quasi ignota agli abitué delle traversate estive concertistiche, ma che oggi per molti è diventata con merito tappa fissa. Confermati a febbraio, a margine della preannunciantissima reunion in occasione del lancio del cast del Primavera Sound di Barcelona (dove li abbiamo seguiti lo scorso fine maggio), per gli Slowdive è anche la prima volta in Italia. Sono passati diciannove anni da “Pygmalion”, terzo e ultimo capitolo della breve parabola del quintetto di Reading. Per molti il loro mito non è tramontato, ma, a prescindere dalla quantità di festival internazionali dove hanno suonato o si esibiranno, bisogna tristemente appurare come una band del genere non riesca a tirare su più che un migliaio o poco più di spettatori.
I tempi sono cambiati, vari revival si sono susseguiti, anche in Italia per molte band emergenti il piccolo mito degli Slowdive non è mai morto. E ne sono una prova due delle band di apertura, Brothers In Law e Be Forest, chiacchieratissimi esponenti dell’altrettanto chiacchierata scena di Pesaro tanto apprezzata fuori dai confini italiani. Né gli uni né gli altri fanno shoegaze, come qualcuno semplicisticamente vorrebbe far intendere, eppure l’ispirazione degli Slowdive è viva nelle sonorità più eteree e vaporose. I primi aprono questa serata di preview del Radar Festival al Parco Nord dello Stadio Euganeo nell’afa del secondo palco e offrono in live che non tradisce quelle emozioni di chi sta suonando davanti a una delle band della propria adolescenza e oltre. Il brano nuovo vira dalle parti dei Deerhunter, il resto lo conosciamo ed è suonato con il cuore, il sudore e la dedizione delle grandi occasioni. I Be Forest fanno un certo effetto visti sui due megaschermi del palco principale. Hanno gli Slowdive a bordo palco che seguono attenti il loro show. Non subentra nemmeno per loro l’ansia da prestazione, l’equilibrio tra arrangiamenti e la flebile voce della singer Costanza Delle Rose è degno dei megaschermi, la platea è attenta, così i Be Forest diventano il perfetto sottofondo del crepuscolo.
La fauna indie si mescola alla minoritaria vecchia guardia dark con la stessa naturalezza con cui il resto degli spettatori si mischia allo staff dal retaggio terzomondista di bar e banchetti dello Sherwood Festival, distribuiti su tutta l’area del parco. Senza amici, conoscenti e conoscenti Facebook, vista dall’esterno, sembrerebbe una mescolanza molto internazionale. Ed è internazionale anche la precisione nella tabella di marcia. Tanto che i malcapitati Soviet Soviet, la faccia spietata e post-punk della scena pesarese, sono costretti a eseguire le ultime note del loro consueto furente spettacolo live, mentre gli Slowdive guadagnano il palco principale.
I cinque Slowdive non si guardano le scarpe nemmeno per un istante, in fondo non l’hanno mai fatto, Rachel Goswell guarda il pubblico con il timido coinvolgimento da primo innamoramento, persino quando le arriva una rosa dalle prime file. Neil Halstead ha le sembianze di un hipster un po’ rurale spesso voltato verso gli amplificatori e un atteggiamento molto sicuro di sé e preso bene, poco sofferto, poco shoegaze. Nick Chaplin, Christian Savill e Simon Scott potrebbero suonare in qualsiasi altro gruppo inglese: tantissima sostanza, zero fronzoli, nessuna cura del look. La scaletta di quasi un’ora e mezzo scivola via in un flusso di classici molto omogeneo, suonato impeccabilmente, senza strappi né particolari picchi emotivi o improvvisazioni (com’è giusto e doveroso). La voce melliflua e aliena della Goswell è di un magnetismo intatto. C Dall’eponima o omonima “Slowdive” fino alla cover di Syd Barrett, “Golden Hair” è un lungo incantesimo che trasforma il parco in un’area senza tempo (magari chiudendo gli occhi per essere sicuri). Scalette equilibrati tra ripescaggi degli albori che lasciano senza fiato: “Avalyn”, “Morningrise”, “She Calls” e la meravigliosa “Catch The Breeze” che a conti fatti sarà l’unico brano incluso nell’esordio su LP, l’acclamatissimo “Just For A Day”.
I brani immortali di “Souvlaki” sembrano fatti molto più su misura per il live, avvolgente e dalle deviazioni a tratti post-rock (che gli Slowdive hanno influenzato quasi quanto i My Bloody Valentine nelle sonorità di molteplici esponenti del genere) nelle chitarre, sempre sobrie, mai troppo esplosive. “Souvlaki Space Station”, “When The Sun Hits” e “Machine Gun” fanno piangere qualcuno. Ed è comprensibile. Neil Halstead, che al Primavera Sound, sembrava quasi disinteressato alla reunion, soprattutto nelle sue composizioni del suo “Pygmalion”, si sente più partecipe. “Crazy For You” svetta, “Blue Skied an’ Clear” a seguire.
Le reunion sono fatte per soldi? Ma questa band se la cagava qualcuno ai tempi? Chi c’era saprà rispondere, per l’ennesima volta, alle solite speculazioni legate a reunion et similia, alle pippe da web e agli inutili abusi delle parole hype e hipster.
Lasciare a casa seghe mentali e speculazioni e provare a vivere la musica in un modo intimo, autentico e personale ormai anacronistico nella realtà dello sputtanamento collettivo 2.0, si può. E può giovare alla propria salute, a quella altrui e alla qualità dei festival italiani.
Questa prima italiana degli Slowdive ne è stata, grazie al Radar Festival, ancora una volta, la prova.
Slowdive
Avalyn
Catch the Breeze
Crazy for You
Machine Gun
Blue Skied an’ Clear
Souvlaki Space Station
When the Sun Hits
Alison
Morningrise
She Calls
Golden Hair
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40 Days
(Piero Merola)