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Well, let it pass, he thought; April is over, April is over. There are all kinds of love in the world, but never the same love twice.
Ci fu un giorno di fine aprile, 1989 era l’anno, in cui mi portai a casa in un colpo solo un paio di cassettine: “Disintegration” era la prima – e sappiamo che enormità di album fu, e che è (forse è ancor oggi “il” mio disco assoluto) – mentre la seconda, più da “passa e va”, fu “Street Fighting Years” dei Simple Minds. Un album ambizioso per la band scozzese, più aperto alle contaminazioni e ai temi internazionali (“Mandela Day”, le collaborazioni con Peter Gabriel e Lou Reed), che infatti ricevette anche sonore stroncature (Rolling Stone lo definì uno “sfortunato esempio di rock politico”).
Ma c’è una canzone, in “Street Fighting Years”, su cui ho inciampato involontariamente in questi giorni, e che mi ha aperto un mondo. E’ “Belfast Child”, adattamento di una canzone tradizionale irlandese che aveva colpito Jim Kerr, “She Moved Through the Fair”, con un testo scritto per l’occasione. Mi ha (nuovamente) impressionato l’afflato universale di questa song, certamente derivante dal suo essere traditional. Del brano irish esiste anche una versione strumentale molto bella fatta da Mike Oldfield in “Voyager”, ma le parole cucite sopra dalle Menti Semplici mi hanno sempre affascinato. “One day we’ll return here, When the Belfast Child sings again”.
Chissà se i Simple Minds la suoneranno lunedì sera a Ferrara. Non è aprile, è luglio e non pare un mese crudele.
(Paolo Bardelli)
#tbt #volume9
giovedì 24 luglio 2014