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Esistono un certo numero di ragioni che giustificano un certo scetticismo nei confronti del debutto di Tahliah Barnett, aka FKA twigs, ventiseienne per metà giamaicana originaria del Glouchestershire: esordio largamente anticipato, nonché preceduto da due EP in buona parte sopravvalutati seppur affatto negativi, “LP1” ha l’aspetto esteriore e la confezione dell’album prodotto in vista della creazione della prossima starlette vagamente dark, vagamente hip-hop, vagamente femminista. All’aspetto etno-alieno che “Twigs” assume nei video dei primi singoli si accompagna infatti un’estetica che sembra farne la Grimes delle minoranze.
In realtà l’album prodotto in collaborazione con, tra gli altri, Sampha, Dev Heynes, Paul Epworth e Arca, già collaboratore di Kanye West, mostra idee molto chiare ed un lavoro in studio in grado di praticarle.
Non è un capolavoro questo primo FKA twigs ma è un disco unitario e compatto dalle sonorità levigate e ben definite, a partire da una quasi industriale “Preface” che apre in modo obliquo, nel senso che anticipa solo in parte ciò che seguirà, ricordando un po’ la “Intro” del primo lavoro degli XX. Le due tracce esplicitamente pensate come singolo, “Two Weeks” e “Pendulum” deludono in parte, perché troppo legate ad armonie vocali non sempre a fuoco, per quanto molto ben inserite nel contesto dell’album. Ma che cosa fa FKA twigs? Sono stati richiamati i già citati XX, ma la musica di Tahliah è più liquida è dunque meno incline a lasciare spazi vuoti al silenzio; si potrebbero ricordare Bat For Lashes e Grimes, come ipotesi però di icona pop piuttosto che riferimento diretto quanto all’estetica; si è parlato di trip-hop, locuzione ormai abusata ad ogni apparizione di ritmi cadenzati e bassi profondi. I momenti migliori in realtà Twigs li tocca quando si presenta come una sorta di Forest Swords in sedicesimi, fruibile ad un pubblico più largo rispetto a quello che apprezza il produttore della penisola di Wirral: ma alle danze totemiche di quest’ultimo qui si sostituiscono momenti più chiaramente pop che sottolineano però anch’essi qualche cosa come una distanza da quanto che ci è più familiare. In questo senso si nota una attitudine etnica senza essere folklorica, “altra” ma non ancora deliberatamente colonizzante come nel caso di una Fatima Al-Qadiri. Episodi come “Closer” e “Give Up” rappresentano i risultati più brillanti di questa inclinazione.
Si dice che le canzoni di FKA Twigs parlino di emozioni private, passioni individuali e sentimenti singolari (“I dance feelings like they’re spoken”), che si connettano ad una profondità esplicativa della logica di rapporti solo interpersonali. Non sono sicuro che questa profondità esista effettivamente, al contrario l’impressione è che Tahliah Barnett, come altre star di un certo universo musicale, una per tutte la già citata Grimes, significhino privato per investire una dimensione pienamente pubblica. È il contesto del nuovo femminismo musicale, e più in generale di tutte le variazioni sul tema, rilevante ma, ci si permetta, invero un po’ esausto, della differenza (di colore, di orientamento, di genere). In particolare se declinato in forme così politicamente edulcorate, quelle della critica musicale soprattutto americana degli ultimi anni. Per questo la figura e l’estetica di FKA twigs si presentano così “aliene”: manifesto di una alterità tanto lampante quanto fine a sé stessa. In questo senso sì, molto privata.
“Il privato è pubblico” ci viene ricordato assegnando a “Oblivion” di Grimes il ruolo di canzone di riferimento del decennio, almeno fino a questo momento: uno slogan che in origine aveva un ben diverso significato e che, entro codici di questo genere, ne esce svuotato e vilipeso. Forse di qui l’origine dello scetticismo verso una proposta come quella di FKA twigs.
62/100
(Francesco Marchesi)
18 settembre 2014