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Chiunque sia stato allo Spazio Alfieri sabato sera, ha avuto come l’impressione di essere sospeso tra passato e presente.
Il bar del cinema ha uno stile molto anni sessanta, con tavoli, poltroncine e pure qualche libro per ingannare l’attesa prima dello spettacolo. La sala di proiezione è moderna e confortevole. Sul grande schermo, però, la fanno da padrone due film storici del cinema muto italiano, “Rapsodia satanica” (1917) e “Il fuoco” (1915): pellicole del primo novecento che sembrano rivivere grazie al sonoro delle trame musicali imbastite da i Giardini di Mirò. In particolar modo, “Rapsodia satanica”, opera di Nino Oxilia, dal sapore faustiano, è una fonte di ispirazione vera e propria per il gruppo reggiano: i Giardini di Mirò non hanno scritto delle musiche per il film (anche perché ci aveva già pensato il compositore Pietro Mascagni all’epoca) ma entrano nel girato delle scene e gli conferiscono un’anima sonora, a lungo (solo) immaginata dallo spettatore. Le movenze di Alba d’Oltrevita (la femme fatale Lyda Borelli), corteggiata e ammaliata da Mefisto, assumono per la prima volta un battito, gli sguardi dell’ “eterna giovane” si fanno immagine vivida e lo stesso dicasi per quelli dei due spasimanti – fratelli: il suicida Sergio (Giovanni Cini) e Tristano (Andrea Habay). Il ritmo del desiderio d’eterna giovinezza e di amore, distorto dal vortice luciferino, è reso in maniera magistrale: la suite strumentale, divisa in sei parti, si articola in molteplici sfumature, riuscendo a dare una luce diversa a ogni fotogramma, in bilico tra chiaro e scuro. Il linguaggio post- rock dei Giardini di Mirò si fa ancora più aperto e multi- sfaccettato, incorporando influenze ambient, post-punk (XVII), mediterranee ed orientali (VII).
La sonorizzazione de “Il Fuoco” di Giovanni Pastrone è decisamente più “classica”: l’impianto strutturale delle tre parti – la favilla, la vampa, la cenere – è impostato su dinamiche post-rock e slowcore, che ricordano a tratti, molto da vicino, le pennellate sonore dei Dirty Three, malinconiche e dolce-amare come l’amore tra la poetessa (Pina Menichelli) e il pittore Mario Alberti (Febo Mari).
In ogni caso i Giardini di Mirò, anche nella proposizione di questo vecchio lavoro, fanno ancora centro : la musica si fa pittura di paesaggi e scenari umani.
(Monica Mazzoli)