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La “fama” dei Goat è avvolta in un velo di mistero ed oscurità, le identità dei vari componenti del gruppo sono ignote: niente nomi, cognomi, né tantomeno foto con il volto scoperto. Le uniche formazioni, che circolano da qualche anno, descrivono i Goat come un collettivo musicale proveniente da Korpilombolo, piccolo paesino dell’estremo nord svedese, confinante con la Finlandia. Viene quasi da chiedersi se non si tratti di un’abile strategia di marketing.
I dubbi però sono stati ormai spazzati via da diverso tempo, è la musica a parlare: un coacervo esoterico di psichedelia voodoo, krautrock distorto, afrobeat e tribalismo. Dopo l’acclamato esordio “World music” (Rocket, 2012), vera e propria dichiarazione d’intenti fin dal titolo, e l’album dal vivo “Live ballroom ritual” (Rocket, 2013), arriva il secondo capitolo discografico, “Commune”, edito per la Sub Pop (per quanto concerne il mercato americano): eh sì, i tempi stanno davvero cambiando.
Ancora una volta il titolo del disco non è scelto a caso, vuole essere evocativo e richiamare (probabilmente) le comuni hippie della Monaco di Baviera della metà degli anni sessanta, humus logistico ed atmosferico da cui è nato il krautrock (un nome su tutti: Amon Duul). La formula è sempre la stessa: infrangere le barriere, mischiare occidente ed oriente, tra suggestioni sonore europee, africane ed asiatiche: n’è un esempio il singolo di “lancio”, “Hide from the sun”, che unisce strutture del prog/krautrock europeo ad elementi indiani (sitar e tabla). Il ritmo è veracemente tribale e carnale ma la trama dei brani è meno labirintica e vorticosa di quella dell’esordio, si gioca di più sull’elemento “mantrico”: i vari pezzi si snodano in flussi, vibrazioni ripetitive ed ipnotiche, enfatizzate dal protagonismo delle percussioni e dei bassi (“Words”, “The light within”, “Goatchild”). Non mancano però tracce più smaccatamente free form in chiusura: “Bondye”, penultimo brano, è un fiume in piena che non vuole fermare il suo corso.
“Commune” è un seguito più che distinto, mancherà forse l’effetto sorpresa ma alle cose belle non dovremmo abituarci mai.
70/100
(Monica Mazzoli)
7 ottobre 2014