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Chi scrive il 20 novembre 1990 compiva 7 mesi e 26 giorni di vita. Chi scrive quindi non può ricordare di come proprio quel giorno, mentre in Italia non succedeva niente di memorabile, in Inghilterra si sgretolava definitivamente il regno di Margareth Thatcher. Finiva un’era politica, ma di certo non finiva di esistere il disastro sociale che la Iron Lady aveva fortemente contribuito a creare nel corso del decennio precedente: ed è per questo che se ne parla nella recensione di questo disco. “Divide And Exit” sembra provenire proprio da uno di quegli agglomerati urbani sorti ben al di fuori di Londra , cresciuti a dismisura come formicai disordinati per numero di abitanti e numero di rispettive casette fatiscenti, in cui la scelta esistenziale per chi ci abita si esaurisce molto brevemente tra la Chiesa da frequentare la Domenica, la fabbrica tutti i giorni dal lunedì al venerdì, il pub a corrodersi le interiora più o meno tutte le sere. Un paese a caso come potrebbe essere ad esempio Grantham, perso nella campagna di Nottingham, un non-luogo in cui sono nati appunto gli Sleaford Mods e, per un motivo cosmico che a fatica reputiamo soltanto una coincidenza, anche Margareth Thatcher.
Quasi come un documentario a dir poco verista , “Divide And Exit” testimonia che dal 20 novembre 1990 ad oggi le cose dalle parti di Gratham non sono cambiate molto: tutto puzza ancora parecchio di marcio. E per raccontarcelo nel modo più efficace possibile Jason Williamson e Andrew Fearn provano a prenderci a pugni. Non in senso letterale eh, però come non si fa a sentire le botte allo stomaco sentendo quella voce sguaiata che se la prende col mondo intero mentre sotto suona quel basso così scarno, rude, rozzo?
Le canzoni di “Divide And Exit” sono schiaffoni in faccia a chi cerca di immaginarsi l’Inghilerra che non sia Londra, luoghi che non potrebbero essere raccontata diversamente da così: saprebbe di finto. Ecco cos’è che convince di questo disco: la sincerità. Il suono degli Sleaford Mods si tiene volutamente ben lontano da una qualsivoglia ricerca stilistica, semplicemente perchè non interessa. Se le canzoni sembrano morderci le orecchie fino a farcele sanguinare è proprio perché dentro alle canzoni non c’è altro che un sintetizzatore coi suoi suoni opprimenti e ossessivi e molta molta vita di merda vissuta fino ad ora. Come si potrebbe raccontare di quel mondo asfittico senza un suono asfissiante?
E quindi quel modo sguaiato di abbaiare davanti al microfono, la sfilza di “fuck” declinato per le più svariate interpretazioni grammaticali, o addirittura i rutti ad aprire le canzoni (“A Little Ditty”) non sono altro che reazioni e controreazioni al non-ordine sociale ed esistenziale di cui gli Sleaford Mods fanno parte. Se la voce di Williamson a tratti ruggisce, a tratti sbraita, è perchè sta raccontando storie di desolazione, sfiga, disordine, merda: canzoni come “Middle Men” o “Liveable Shit” hanno bisogno di ulteriori traduzioni, ulteriori spiegazioni, o basta già il titolo a dirci tutto?
Qualcuno potrebbe fare l’errore di definire “new punk” il suono degli Sleaford Mods. Tecnicamente è così, perchè del punk Williamson e socio prendono fortunatamente solo la cazzutaggine attitudinale, ma niente altro. Perchè se il punk, a pensarci lucidamente, portava con sé una ricerca stilistica precisa e pianificata a priori, seppur in antitesi al sistema vigente, quello degli Sleaford Mods invece è realismo: i due inglesi non cantano della loro ribellione al Regno Unito dall’alto della loro (costruita) estraneità, ma nel sistema ci sono proprio impantanati dentro come dei topi nelle fogne. Lo conoscono, lo abitano, lo vivono, lo raccontano. Meglio, molto meglio di chiunque altro.
79/100
Enrico Stradi