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Sull’onda dell’esplosione indie rock degli anni ’00, in mezzo alla miriade di gruppi e gruppetti che hanno travolto il vecchio panorama musicale per instaurarne uno nuovo, i Courteneers erano riusciti guadagnarsi il loro minuscolo spazio vitale con l’esordio “St. Jude” (2008, Polydor). Diciamo anche che a quei tempi non era esattamente un’impresa così ardua, a patto di adeguarsi a determinati stilemi, che si limitavano principalmente a recuperare le sonorità brit-pop.
(Ok, “adeguarsi” non è il termine più esatto, in quanto presuppone che si sia in grado di fare di meglio, e che ci si stia, appunto, adeguando. Ma comunque)
(E si parla del brit-pop di matrice peggiore, quello dei fratellini. Ci siamo capiti)
Tuttavia conquistarsi una posizione e conservarla una volta terminato l’hype per una certa scena musicale sono due cose ben diverse, ed è lì che si gioca la vera partita.
La lezione di band britanniche che, ognuna a suo modo, è fuoriuscita dal caos per trovare quantomeno una dimensione autonoma – vedi, ad esempio, Arctic Monkeys e Kasabian, pur con qualche riserva – non è stata raccolta dal quartetto di Manchester. Sopravvivere nel senso di “ehi, siamo vivi, siamo ancora qui, guardate, ecco un album nuovo” non è esattamente il modo migliore di fare musica. Insomma, come se fosse obbligatorio sfornare dischi.
E non era obbligatorio neppure questo “Concrete Love”. Il disco parte bene, con l’apertura “White Horses” che inizia un po’ solenne, vagamente à la Depeche Mode, e prosegue spedita fino al ritornello, dove perde in grinta, ma rimane convincente. Dal secondo brano però le cose si fanno chiare: “How good it was” ruota intorno ad una melodia usurata, e prepara per il peggio. C’è un numero molto limitato (necessariamente compreso tra 0 e 1) di brani composti sui soliti quattro accordi o formulette magiche analoghe che possono rientrare in un album senza svilirlo del tutto. Qui ne abbiamo ben quattro: “How good it was”, “Small Bones”, “Dreamers” e “A beautiful head”; non si tratta di meri riempitivi, queste canzonette rivelano le intenzioni “profonde” e non serie sottese a questo album, e finiscono per lasciare sullo sfondo quei pochi pezzi interessanti. Persino nel ritornello di “Summer”, probabilmente il brano migliore dell’album, viene usata la stessa progressione con qualche leggera modifica. Gli altri brani sono tutti più o meno insignificanti, escluse le più che discrete “Saboteur” e “Black and Blue”.
Bah. Ma non era meglio un EP? No, perché l’EP c’è stato, e la title track era proprio l’orribile “How good it was”, che è stato pure uno dei singoli estratti dall’album. E allora forse non c’è speranza.
45/100
Pietro Di Maggio
(14 ottobre 2014)