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La nona edizione del Festival Internazionale del Film di Roma si è conclusa, come da rituale, con le premiazioni. Per la prima volta durante il triennio diretto da Marco Müller il palmarès è stato deciso dal voto del pubblico (pagante, visto che gli accreditati non avevano diritto a partecipare alle votazioni), che ha assegnato un premio per ogni sezione del festival, distinguendo addirittura in Prospettive Italia i film documentari dalle opere di finzione: in Gala ha così trionfato Trash di Stephen Daldry, thriller interpretato da un trio di bambini (oltre a Rooney Mara e Martin Sheen) e ambientato nelle favelas carioca di Rio de Janeiro; in Cinema d’Oggi la riedizione cinese de La parola ai giurati (12 Citizens di Xu Ang); in Mondo Genere la versione bollywoodiana di Amleto, Haider di Vishal Bhardwaj; in Prospettive Italia la commedia di Roan Johnson Fino a qui tutto bene per la fiction e il viaggio in Eritrea di Francesco G. Raganato e del suo Looking for Kadija per i documentari.
Ma cosa resta davvero di questi dieci giorni di visioni, incontri, piccole e grandi polemiche? Se di dovesse restringere il campo alle cinque opere più significative, con ogni probabilità la scelta ricadrebbe su:
Angels of Revolution di Aleksei Fedorchenko. Nell’Unione Sovietica dei primi anni Trenta un gruppo di artisti d’avanguardia viene spedito nello sperduto nord per convincere le popolazioni locali ad abbandonare le loro fedi ancestrali e sposare l’ideologia comunista. Il tragico tema della “russificazione” staliniana entra in conflitto, nel bel film di Fedorchenko, con le resistenze di un gruppo di artisti svezzato dall’utopia marxista-leninista e destinato a soccombere, schiacciato dall’egemonia politica da un lato e dalla ferina lotta delle credenze sciamaniche dall’altro.
Gone Girl di David Fincher. A breve nelle sale italiane, il nuovo film di Fincher è un thriller familiare in grado di ribaltare con una naturalezza sconvolgente il punto di vista e di lavorare sulle psicologie dei personaggi con ironia crudele e sardonica. Un’opera avvincente, diretta con magistrale sobrietà da uno dei più grandi registi hollywoodiani di oggi.
Haider di Vishal Bhardwaj. Il già citato adattamento shakespeariano in stile Bollywood è una delle chiare dimostrazioni della direzione che sta prendendo il cinema mondiale. L’India rimane una delle poche sacche di resistenza del cinema inteso come puro spettacolo da vedere e godere, come comunicazione diretta con la contemporaneità e capacità di adattare al presente i racconti del passato o di altre tradizioni (la narrazione intercetta anche il perenne conflitto in Kashmir), prerogativa che la stragrande maggioranza della produzione europea ha abbandonato da tempo e che solo Hollywood, in occidente, continua a difendere a spada tratta. Pur con un numero limitato di intermezzi canori (e tutti perfettamente inseriti nella vicenda), Haider è un fiume in piena in cui la commedia, il dramma politico e il melò si fondono in maniera ineccepibile. Il cast è composto di soli divi (tra gli altri Shahid Kapur, Shraddha Kapoor, Tabu, Kay Kay Menon, Kulbhushan Kharbanda, Narendra Jha) da noi ancora completamente ignoti.
Já visto jamais visto di Andrea Tonacci. Il regista monta, assembla, costruisce una narrazione impossibile traendo spunto da filmini di famiglia vecchi di trent’anni, da film iniziati e mai finiti, per firmare l’elegia di un cinema che (finora) non aveva mai trovato una propria compiutezza. Ne viene fuori un racconto umorale, personale eppure così facile da decifrare, tenero e crudele, a tratti inevitabilmente incompiuto ma illuminante.
As the Gods Will di Takashi Miike. Bastano e avanzano le prime due macro-sequenze dell’ultimo film di Miike per inserirlo nella top-5 del festival: un gioco al massacro senza reticenze né intellettualismi di sorta, pura celebrazione dell’ingegno visionario e del divertissement elevato a concetto produttivo. Il resto del film è più squilibrato e a tratti tirato per le lunghe, ma è un dettaglio di secondaria importanza.
Elencati i “buoni”, è necessario però mandare qualche film dietro la lavagna. La più grande delusione del festival è senza dubbio arrivata da Lucifer, pretenzioso affresco tra il naturalistico e il “divino” architettato dal fiammingo Gust Van der Berghe e ambientato in un povero villaggio messicano. Uno sguardo altezzoso che vorrebbe farsi terzomondista senza averne né capacità né diritto e che trova la propria definitiva dannazione (è il vero caso di dirlo, visto l’argomento) nella scelta di riprendere l’intero film come se lo si facesse attraverso un periscopio. Irritante e vuoto, tutto ciò che il cinema di ricerca non dovrebbe mai permettersi.
Meno dolorosa, ma altrettanto cocente, la delusione partorita dalla visione di Ragazzi di Raul Perrone: il bravo regista argentino vorrebbe omaggiare Pier Paolo Pasolini e i suoi ragazzi di strada, ma si perde dietro sofismi intellettuali e vagheggiamenti di suoni artefatti e immagini splendide per ricercatezza ma inadeguate allo scopo.
Cosa resterà, poi, di questo festival ora che il direttore ha confermato il proprio addio alla kermesse romana? È facile prevedere che l’evento tornerà a mostrare in maniera ancora più evidente le crepe che Müller era riuscito in parte a coprire con la propria competenza. Cosa potrà diventare il Festival di Roma? Una festa meno dedicata ai cinefili e più al pubblico? Addirittura una festa popolare dedicata alla commedia (idea ventilata da Carlo Verdone in un’intervista al Corriere della Sera)? Quel che è certo è che ancora una volta la logistica pare il punto debole per qualunque slancio o apertura nei confronti della città: l’Auditorium, fuori dal centro e luogo davvero poco attraente per trascorrere le proprie giornate, non pare essere esattamente il posto capace di attirare spettatori.