Share This Article
A nostro parere “The Final Cut” era un titolo sufficientemente eloquente per dare un taglio definitivo ad una carriera stratosferica che non meritava di essere macchiata da opere minori, per la quale era meglio “appendere le scarpe al chiodo (lasciandoci una buona immagine di loro)”. I Pink Floyd invece hanno vissuto purtroppo anche la fase-3 senza Waters e in questi giorni hanno dato pure alle stampe un album postumo di cui, sinceramente, non se ne sentiva il bisogno.
Motivo per cui era imprescindibile andare a puntualizzare quali siano, a detta di Kalporz, le 7 canzoni fondamentali della band inglese. Una classifica con delle sorprese, perché per gruppi di una tale caratura non bisogna mai fermarsi alle “hit”.
E poi, lo si sa, se rifacciamo la classifica domani ci viene diversa.
P.S. (sì, è rimasta fuori “Echoes”… facciamo che ci prendiamo una nota sul diario da soli, ok?)
7. “Summer ’68” (da “Atom Heart Mother”, 1970)
Una perla nascosta tra i brani composti da Richard Wright. Il dolce riff di pianoforte iniziale immerge in un’atmosfera onirica di matrice folk in cui Wright ricorda un’avventura di una notte. Il sentimentalismo lascia presto spazio agli ottoni della Abbey Road Session Pops Orchestra che la fanno da padrone nel cuore sinfonico del brano. L’alternanza dei momenti epici e introspettivi, il contrasto che riassume bene la produzione complessiva dei Pink Floyd, descrive un movimento nell’ascolto: pare di “allontanarsi” dalla title-track di “Atom Heart Mother”, per riuscire ad averne una visione d’insieme, ridimensionata: a distanza, la colossale macchina di sapore epico e classicheggiante risulta più digeribile e, perché no, più pop. E funziona dannatamente bene.
(Pietro Di Maggio)
6. “Brain damage/Eclipse” (da “The Dark Side of the Moon”, 1973)
La leggenda vuole che sia stato un Syd Barrett ai limiti della schizofrenia a ispirare quella che avrebbe dovuto essere la title track del leggendario “The Dark Side Of The Moon”. La canzone venne poi chiamata “Brain Damage”, nome perfetto per un brano che parla di follia, alienazione e, ovviamente, dello stesso Syd Barrett. Al ritmo trasognato e ripetitivo dalla strofa fa da contraltare l’esplosione del chorus, prima che l’emozione e lo straniamento sfumino nel trionfante crescendo finale di “Eclipse”. Una melodia imperiosa e sublime accompagna la voce di Roger Waters, che in due minuti scarsi ci dà la sua personale interpretazione del senso della vita: un ciclo continuo di azioni e sensazioni che si ripetono all’infinito, in perfetta armonia sotto il sole.
Ma il sole è eclissato dalla luna.
(Stefano Solaro)
5. “Wish You Were Here” (da “Wish You Were Here”, 1975)
I Pink Floyd sono la band di famiglia Maioli. Da mio padre, passando per suo fratello per arrivare al sottoscritto, tutti noi possediamo i loro dischi e ne abbiamo uno preferito. Ed è curioso come si passi in rassegna un’intera carriera nelle sue tappe più importanti: Giorgio adora (e suonava continuamente in casa) il vinile di “The Wall”, mentre Fabio venera “The Dark Side Of The Moon”. Io infine, bastardello freakettone, vado sul primo “The Piper At The Gates Of Dawn”. Ad ogni modo diverse anime, sublimi e irripetibili, dello stesso gruppo.
Eppure, se dovessimo scegliere una canzone, sono convinto che sarebbe “Wish You Were Here”, l’ideale summa delle parti. Perchè cantata da Gilmour, scritta da Waters e dedicata a Barrett. Quella che recitiamo a memoria, e strimpelliamo più o meno convinti alla chitarra. Noi come gran parte degli appassionati di rock, magari intrippati con gli Eagles, Supertramp e Eric Clapton.
Artisti che pagherebbero di tasca propria per avere scritto una canzone del genere.
“How I wish, how I wish you were here.
We’re just two lost souls swimming in a fish bowl, year after year,
Running over the same old ground. What have we found?
The same old fears. Wish you were here.”
(Matteo Maioli)
4. “Lucifer Sam” (da “The Piper at the Gates of Dawn”, 1967)
“The Piper at the gates of dawn”, pietra miliare della psichedelia inglese, è il disco barrettiano dei Pink Floyd: tutti i brani sono a firma Barrett, fatta eccezione per “Pow R. Toc H.”, “Interstellar overdrive” (scritti dalla band al completo) e “Take up Thy Stethoscope” (di Roger Waters). Lucifer Sam (in origine “Percy the Rat Catcher”), seconda traccia dell’album e tra le canzoni più coverizzate del gruppo, ha una verve sonora particolare, è un incrocio tra surf e psychedelic rock e garage. La struttura portante del brano, costruita sul riff discendente barrettiano, si delinea attraverso il suono della chitarra (filtrato da una echo machine) e le sfumature spaziali apportate dall’organo di Richard Wright. Questo tappeto sonoro stralunato fa poi da sfondo al testo, filastrocca nonsense.
(Monica Mazzoli)
3.“Comfortably Numb” (da “The Wall”, 1979)
Se “The Wall” è l’ultimo grande album dei Pink Floyd, “Comfortably Numb” è forse l’ultima loro grande canzone. Per un’ultima volta Waters e Gilmour si completano a vicenda, generando una somma superiore agli addendi. In questo, credo, andava ricercata buona parte della magia dei Pink Floyd. Una intuizione melodica di Gilmour, buttata giù senza liriche, ispira in Waters un testo dolorosamente dolce, impressionistico, che travalica la gabbia della rock opera. Rivivono e convivono frammenti del passato floydiano, la malinconia di “Fat Old Sun”, le inquietudini watersiane del sonno della ragione e i suoi mostri, da “Pow R Toc H” al Lato Oscuro. Non sarà mai più così. The child is grown, the dream is gone.
(Stefano Folegati)
2. “Careful with That Axe, Eugene” (da “Ummagumma”, 1969)
Più che una canzone, è una dichiarazione di intenti. Cambia pelle nelle varie versioni in cui fu suonata, oltre che titoli (tra cui “Come in No. 51, Your Time is Up” per il film Zabriskie Point), per arrivare alla massima espressività, e potrei dire quasi il più sconvolgente delirio, in “Ummagumma”, dove il crescendo ossessivo e cupo si sfoga nell’urlo di Waters, preludio – anni prima – di quello all’inizio di “Another Brick In The Wall part II”. Pura spazialità, la vittoria della musica strumentale sul testo, libertà psichedelica, ma soprattutto il rimshot di Mason che pare davvero il cadere ossessivo di un’ascia fino a quella che deve essere, in qualche maniera, un’amputazione.
(Paolo Bardelli)
1. “Jugband Blues” (da “A Saucerful of Secrets”, 1968)
Immaginate di vivere nel 1968. Avete tra le mani la copertina di “A Saucerful of Secrets”, il secondo LP dei Pink Floyd, e cercate disperatamente di carpire brandelli di Syd Barrett in un cosmo che si muove in tutt’altra direzione. Inutilmente. Poi, dopo circa 36 minuti, la voce di Barrett anticipa l’irruzione degli strumenti di un nanosecondo affermando “It’s awfully considerate of you to think of me here / And I’m much obliged to you for making it clear / That I’m not here.”. Ok, è chiaro: non sei qui. Però Barrett per neanche tre minuti c’è, e irradia una composizione sbilenca, dolente, sperduta e dolcissima, ineluttabile. È la sconfitta, ed è l’addio. Un addio di fanfare, di suoni dalle viscere della terra, di chitarra acustica. “And what exactly is a dream, and what exactly is a joke”, questo non l’ho ancora capito, a parte la musica di Syd Barrett…
(Raffaele Meale)
13 novembre 2014