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Thurston Moore e la sua nuova creatura, a Milano. Non ci si poteva sottrarre (e anzi, ci si doveva proporre, com’è stato fatto).
Grande curiosità, anzitutto per i nomi d’eccezione che partecipano al progetto: James Sedwards alla chitarra (ex Nought), Debbie Googe al basso(ex My Bloody Valentine e Primal Scream) e Steve Shelley alla batteria (ovviamente ex Sonic Youth). Curiosità destata anche dall’ottimo album appena sfornato, che sprizza tutta la classe dei membri della band da ogni nota. E sotto sotto, e forse prima di tutto questo, la non troppo segreta speranza di ascoltare qualche brano del repertorio sonico, almeno un classicone. Speranza che terrà lì alcuni di noi per più di qualche minuto dopo la definitiva fine del concerto, in attesa di un ultimo encore per i pochi eletti rimasti. Ci arriviamo.
Durante l’opening act di Antonio Tavoni, mente del progetto folk Angus Mc Og, sento un ragazzo di fianco a me rispondere alla domanda della fidanzata “Ma è lui?” dichiarando fermamente “Certo che è lui, senti che voce! Tra poco usciranno anche gli altri”. Tavoni suona in acustico, è bravo e canta con voce ispirata, ma non c’è modo plausibile in cui si possa confondere con Thurston Moore. Ma ok.
Quando sul palco fa capolino Thurston (inconfondibile ancor prima che apra bocca) con il suo bel leggìo, l’atmosfera è di tutt’altro tipo. Imbraccia la chitarra e si parte: un’intro ipnotico va a sfociare in “Forevermore”, dall’ultimo disco, e pochi secondi bastano per capire che né la sua voce né il suo tocco sulle corde sono invecchiati. Dopo aver preparato per bene il terreno si prosegue con il singolo “Speak To The Wild” (The king has come to join the band!) e gli altri brani di punta del nuovo album. Tutti suonano in maniera impeccabile, concentratissimi e altrove allo stesso tempo. Moore si prodiga in deliri strumentali in cui risalta più che mai la simbiosi con Shelley, che dopo anni passati a suonare insieme è ormai un impareggiabile maestro nel definire e tracciare i contorni del chitarrismo astratto del compagno. La sua batteria e il basso della Googe tendono un tappeto elastico per le evoluzioni di Moore e Sedwards.
I quattro e l’affiatamento che li tiene insieme sono un piacere per l’orecchio, dispensano gioia, dolore e rabbia in frangenti più aspri (“Detonation”) come in quelli più “leggeri” (la title-track “The Best Day”), fino a culminare nella splendido brano strumentale “Grace Lake”, con cui si chiude la prima parte del concerto. Thurston e compagnia tornano dietro le quinte, per uscire pochi minuti dopo e attaccare con la marziale “Pretty Bad”, gran bel classico del repertorio solista di Thurston Moore. E ci fa piacere, ovviamente, ma, ovviamente, non è esattamente ciò che ci aspettavamo. Salutano di nuovo e si ritirano, ma sappiamo che usciranno ancora (devono uscire!) e speriamo che sia la volta di “Candle” o figate simili. E di fatti tornano sul palco per un ultimo brano, che si rivela essere “Ono Soul”, altro fenomenale brano dal debutto solista di Thurston “Psychic Hearts”, con tanto di digressioni noise aggiunte. Gran bel pezzo. Finisce così, senza vecchie glorie: probabilmente una scelta di Moore per sottolineare lo stacco da (e la fine di) un’era.
Lui saluta, tutti salutano, grandi sorrisi, normale amministrazione per loro. Il palco viene sgomberato e alcuni di noi ancora lì a sperare e guardarci intorno, a non accettare l’evidenza.
Un’ora e poco più di ottima musica suonata come si deve, un pizzico di inevitabile delusione e un’enorme soddisfazione. Sentitevi l’album!
(Pietro Di Maggio)