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Lo dico con la morte nel cuore, ma c’è da essere piuttosto disgustati dall’ultimo dei Belle And Sebastian. Fin dalle prime note, quei 30 secondi iniziali di “Nobody’s Empire”, che paiono uscite da una colonna sonora delle Edizioni Paoline per le cresime 1987 o dai jingle dei corsi di Yoga di Vigevano. La svolta “dance” di Stuart Murdoch è totalmente fuori fuoco per tre ordini di ragioni: primo, l’obiettivo non è chiaro nell’album complessivamente inteso. Se la prospettiva dichiarata è quella di recuperare sonorità da pista da ballo degli Anni ’80, cosa ci fa una canzone come “The Everlasting Muse” con spazzole, contrabbasso e astmofere jazzy? Un album riuscito deve avere una sua unitarietà d’intenti, prima di tutto. Per assurdo anche nella varietà (non è necessaria la perfetta compattezza), pur sempre in una cornice in cui i colori sono utilizzati a ragion veduta.
La seconda scivolata è all’interno degli stessi pezzi: tornando all’iniziale “Nobody’s Empire”, dal 30° secondo in poi i B&S tornano alle loro classiche atmosfere pop, pertanto cosa ci rappresenta l’incipit iniziale così avulso dal contesto successivo?
Il terzo motivo di doglianza, forse il più importante, è nel merito stesso della virata: i suoni utilizzati per questa “evoluzione” sono caricaturali, gli arrangiamenti degni di un neomelodico napoletano. Come definire, altrimenti, “Enter Sylvia Plath”? Credo che il Piccolo Lucio saprebbe fare di meglio.
Poi, tentando di grattare via tutto questo (il che, evidentemente, non è possibile) rimangono a tratti (ma molto a tratti) le melodie a cui ci hanno abituati la band di Glasgow, che ci fanno dire che l’unica possibilità che si può dare a questo nono album dei B&S è quella del live. Ben sapendo che in studio rimane un disastro (tranne la conclusiva “Today (This Army’s for Peace)”).
Caro Stuart, le ragazze vogliono ballare, sì, ma altra roba.
29/100
(Paolo Bardelli)