Share This Article
The Dodos arrivano al traguardo del sesto album, dopo neanche una decina di anni di carriera, passata attraverso momenti di grazia (“Visiter”, pubblicato nel 2008, resta una delle produzioni migliori di tutti gli anni zero) ed altri di sconforto (l’improvvisa morte nel 2012 dell’ex Women e tour member Chris Reimer). Non si sono mai dati per vinti, la chitarra pazza Meric Long e lo scultore del ritmo Logan Kroeber. “Individ” lo dimostra fermamente con nove brani, rilasciati da Morr Music, di pregevole freschezza e fattura.
Nelle interviste di rito a presentazione del disco, Long ci ha tenuto a sottolineare il carattere naturale ed istintivo delle nuove composizioni. Un approccio teoricamente semplice, ma comunque a necessaria distanza da qualsivoglia banalità: l’incedere prorompente della prima canzone di “Individ”, “Precipitation”, unito ad una scrittura mai lineare – anzi, come in balia degli eventi musicali che le stanno attorno – ne è un chiaro esempio. Le sorprese, come le idee che restano alla memoria, non mancano di certo ai due californiani: “Bubble” è una ballata che solo l’arrangiamento rende sofisticata, con un’apertura melodica intorno al secondo minuto di rara bellezza e pathos; “Goodbyes and Endings” fonde lo stile di un James Mercer con un gusto più britannico, magari del Weller ultimo periodo.
“Carrier (il precedente album edito a metà 2013) trattava la rottura degli schemi e delle consuetudini, questo lavoro è invece una sorta di accettazione della propria essenza e radici.” Un teorema valido sin dall’immagine di copertina, tra uomini raffigurati intenti a domare qualcosa di più grande di loro, “come la sensazione che si prova a stare dentro a un tornado”. Il singolo “Competition” riassume le parole del chitarrista ed il mood stesso dell’intera raccolta: “Can I protect it/would I have to be/up on my language/though I’m leaning towards it“, e nel chorus “if I let you go/could I forget you/and if I let you know/who I’m modeling after“. Questo nelle lyrics, perchè la musica è se possibile ancor più grandiosa, piena di chitarre dirompenti, che scivolano tra acustica e slide, voci che si uniscono come in una preghiera, infine un drumming robusto e paragonabile all’incedere di un treno intercity in aperta campagna.
Da registrare la partecipazione di Brigid Dawson dei Thee Oh Sees al cantato della conclusiva “Pattern/Shadow”, dove le chitarre si fanno più ruvide ed il duo riesce a dare sfogo alle emozioni accumulate in tutto questo tempo speso a produrre grande musica. “Darkness” con quella veste bucolica, tra Elliott Smith e i Travis di “The Man Who”, è emblematica di questo innato amore del gruppo per il folk, il blues e la miglior psichedelia.
Sono titoli fin troppo scuri per le canzoni ariose ed estremamente dinamiche di “Individ”, l’antitesi in un nuovo inizio per The Dodos.
76/100
Matteo Maioli