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Dall’Italia, quel luogo in cui la politica estera occupa poco più di un trafiletto in ottava pagina sui quotidiani mentre impazzano notizie di ogni tipo sul governo in carica, l’idea che ci si può fare del Festival di Cannes è a dir poco inesatta. La maggior parte di voi, ammettetelo, pensando alla Croisette immagina frotte di divi a passeggio, glamour come se piovesse, tappeti rossi su cui camminano solo uomini e donne nei loro abiti più eleganti. C’è tutto questo a Cannes, è vero, ma non se siete degli accreditati stampa arrivati in Costa Azzurra per vedere film e scrivere articoli. Per voi, se fate parte di questa schiera (ben più numerosa di quella delle star), si aprono le porte infinite – ahinoi – delle file chilometriche. File per entrare in sala, ovviamente, e sul cui esito traballa la proverbiale spada di Damocle. L’oramai arcinoto classismo del Festival, che divide in categorie la stampa neanche si facesse parte di un sistema feudale (dai badge bianchi, pochissimi e intoccabili, ai “poveri” gialli costretti ad attese disumane per raggiungere l’agognata sala) si riproduce anno dopo anno, senza modifiche di sorta.
La prima giornata di questa sessantottesima edizione non ha dunque voluto smentire la prassi, e così tutti gli accrediti gialli e tutti i blu – tra cui il sottoscritto – sono rimasti fuori alle due proiezioni di Umimachi Diary di Hirokazu Kore-eda. È vero che l’organizzazione del festival ha sapientemente piazzato il film entrambe le volte nella Salle Bazin, una delle più piccole dell’intero Palais, ma la sensazione di malessere che circolava tra gli addetti ai lavori era ben percepibile. Visto che il primo film del concorso l’abbiamo saltato (si recupera domani al mastodontico Grand Théâtre, che non si riempirebbe neanche per un film inedito di Stanley Kubrick) e che il secondo, l’interessante ma incompiuta incursione della fiaba orchestrata da Matteo Garrone nel suo Il racconto dei racconti – Tale of Tales, avevamo già avuto modo di vederlo in anticipata stampa a Roma prima della partenza, l’unica visione odierna è stata il film d’apertura, La Tête haute di Emmanuelle Bercot. Chiunque abbia una minima conoscenza del cinema partorito fino a oggi dalla Bercot si farà con facilità un’idea piuttosto precisa di cosa possa aver prodotto la regista, sceneggiatrice e attrice francese. La storia di Malony, adolescente problematico che passa attraverso le maglie degli istituti correttivi si trasforma nelle mani della Bercot in un retorico peana del sistema giudiziario transalpino, ricco di climax emotivi fuori misura e sorretto solo ed esclusivamente da un parco attori di sicura affidabilità. Un film furbo e disonesto, come ben esplicita l’agghiacciante inquadratura finale, nella quale sul totale del tribunale sventola orgogliosa una bandiera francese. Inqualificabile.
Per il resto la solita atmosfera da festa ipertrofica che si respira sempre a Cannes, tra persone alla disperata ricerca di un invito per le proiezioni di gala, ragazzine che sperano di farsi notare dal cinematografaro di turno, e una grandeur che per ora, ma è ovviamente presto per dirlo, di cinematografico ha ben poco. Ma domani sarà già la volta di Philippe Garrel, Radu Muntean, Naomi Kawase e di Mad Max. Inizia il divertimento, allacciamo le cinture.
(Raffaele Meale)
14 maggio 2015