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Ci sono luoghi che ti folgorano con la loro magniloquente bellezza, costringendoti al silenzio. Luoghi in cui la mente torna a vagare anche a tua insaputa, luoghi che racchiudono al loro interno un valore storico, emotivo, persino “umano” nella concezione più alta e pura del termine. I luoghi di un festival cinematografico quasi mai, ovviamente, assumono valenze simili a quelle descritte per i cinefili. E ci mancherebbe altro. Non si può tuttavia nascondere come la sala del Grand Théatre Lumière, epicentro dei lavori del Festival di Cannes, rappresenti un mondo a se stante, che poco o nulla ha a che spartire con il resto dell’universo che la circonda.
Non si sta parlando solo della sua grandezza (è la più spaziosa sala al chiuso di cui io abbia memoria, per esempio), e neanche dell’importanza dei film che ha ospitato sul gigantesco schermo, ma del senso che acquista all’interno dei percorsi spesso tortuosi che la Settima Arte compie durante l’anno. Il GTL (con questo acronimo è segnalato su tutte le guide alle proiezioni e i programmi distribuiti al festival) è quasi un non-luogo, tempio della fascinazione per immagini.
In questo 2015 non avevo avuto ancora modo di mettervi piede, e il fatto che l’occasione mi sia stata fornita da un vecchio amore d’infanzia come Woody Allen aggiunge fascino al fascino. Regista che continua con imperterrita cocciutaggine a dirigere almeno un film all’anno (ma che vuole raggiungere l’immortalità non con l’arte, ma non morendo), Allen si concede solo occasionalmente ai fasti della Croisette, dove è come sempre accolto nel fuori concorso. La sala del GTL si è dunque riempita in ogni ordine di posti per la proiezione mattutina di Irrational Man, nuova – ennesima – commedia sentimental-esistenziale partorita dalla fervida mente del regista, attore e commediografo newyorchese. La storia rientra la cento per cento nei canoni standardizzati del cinema di Allen: un professore di filosofia in un college di provincia sta attraversando un periodo di profonda crisi personale, che prova a combattere attraverso una relazione con una delle sue studentesse. La crisi d’identità, il conflitto tra relazione intellettuale e fisica, la difficoltà ad accettare la vita per quel che è, l’impossibilità umana di appagare completamente il desiderio; tutti elementi ricorrenti del cinema di Allen che tornano con prepotenza anche in Irrational Man. Un film che però nasconde ben altro: tra le pieghe del racconto si annida una riflessione cupissima sull’esistenza, sull’uso e abuso della morale, sul senso della giustizia (in)applicabile alla società moderna. La commedia diventa noir per accogliere le forme della tragedia e vezzeggiarle. Woody Allen gira il suo film più ispirato del nuovo millennio, e dimostra ancora di avere molto da dire, e di saperlo fare decisamente bene.
Nel pomeriggio, dopo un fugace pranzo, sono riuscito finalmente a recuperare Umimachi Diary di Hirokazu Kore-eda, che non ero riuscito a vedere alle proiezioni stampa per la scelta scellerata di programmarle nella microbica Salle Bazin. Ebbene, tanto male mi era stato detto del nuovo film del regista giapponese, quanto in realtà mi è parso perfettamente in linea non solo con la sua poetica, ma anche con la qualità delle opere precedenti. La storia di tre sorelle che, dopo la morte del padre che le aveva abbandonate quindici anni prima, scelgono di accettare nella loro casa la sorellastra, diventa l’occasione per una nuova incursione nei meandri dei legami affettivi e familiari. La mano di Kore-eda è lieve, gentile, armoniosa, attenta ai bisogni e alle esigenze delle sue giovani protagoniste. Un film che conquista e intenerisce, senza mai essere in alcun modo ricattatorio.
A chiudere in negativo una giornata che altrimenti avremmo annoverato tra quelle più meritevoli di memoria futura, ci ha pensato Gus Van Sant con The Sea of Trees, cocente delusione e (al momento) peggior titolo tra quelli presentati in concorso. Elaborazione del lutto, desiderio di morte, memorie conflittuali, matrimoni in crisi: questi i temi portanti del film, declinati attraverso un utilizzo ai limiti dell’indecente di una supposta – e a uso e consumo di un pubblico occidentale – mistica giapponese. Un film ai limiti dell’imbarazzante, che sfonda le pareti del comico involontario e cade a più riprese nel ridicolo; la visione lascia a bocca aperta anche i più appassionati cultori del regista statunitense che mai era scivolato in maniera così fragorosa nel corso della sua carriera. Alcune sequenze entrano di diritto nella top-10 degli scult dell’anno. Purtroppo. Una selva di fischi ha accompagnato i titoli di coda, prima che lo sferzante vento che ha spazzato la Croisette riportasse tutti a più miti consigli. Verso casa, e il letto, in attesa di un nuovo giorno di festival.
(Raffaele Meale)