Share This Article
La Cina è vicina, parte prima (per la seconda dovrete aspettare domani).
Jia Zhangke – alcuni si prodigano ancora a utilizzare la traslitterazione Zhang-ke – è uno dei più importanti registi viventi. Uno di quegli autori di cui si parlerà ancora tra settant’anni. Un ruolo che il regista nativo di Fenyang non ha assunto in questi giorni sulla Croisette, ma ha fatto suo fin dagli esordi, grazie a titoli imperdibili del cinema degli ultimi decenni come Platform, The World, Still Life (con cui vince il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia nel 2006) e A Touch of Sin. A ridosso dell’annuncio ufficiale della selezione dei film che avrebbero concorso per la vittoria finale l’occhio del cinefilo più attento si è lasciato sedurre soprattutto da due titoli: Mountains May Depart di Jia Zhangke e The Assassin di Hou Hsiao-hsien. Sul secondo mi soffermerò con dovizia di particolari nell’appuntamento quotidiano di domani – qui verrà presentato alla stampa in serata –, quindi non mi resta che spendere due parole o anche più sul film di Jia.
“Spendere”: non c’è forse verbo più esatto per cercare di scavare in profondità tra le pieghe di Mountains May Depart. Jia si lancia in una spietata analisi della Cina contemporanea e futura (il film è diviso in tre segmenti, ambientati nel 1999, nel 2014 e nel 2025), dominata da un capitalismo sfrenato e da un mercato liberista senza controllo alcuno. In questo panorama inserisce i suoi personaggi, dapprima orchestrando un triangolo amoroso inequivocabilmente scaleno (una ragazza è contesa da un imprenditore milionario e da un minatore) e quindi lanciandosi in un percorso di affetti negati, recisi, impossibili. Impossibili come il dialogo tra una generazione che ancora parla cinese mandarino e un’altra che ha preferito accettare l’inglese come madrelingua. Il tracciato scavato da Jia è un abisso di stratificazioni di senso, melò amoroso che si fa dramma dalle forti tinte politiche senza operare alcuna soluzione di continuità. Ne viene fuori un maestoso affresco della Cina di oggi, ma anche e soprattutto un grandioso racconto di umanità dubbiose e derelitte, girato con una maestria fuori dal comune da Jia, che alterna la qualità delle riprese – utilizzando in fase di montaggio anche materiale amatoriale filmato per proprio diletto nel corso degli anni a partire dal 2001 – e il ritmo di una narrazione mai banale. Il principale candidato alla vittoria finale, per ora, senza dubbio alcuno. E l’irruzione, nell’incipit e nel finale, di Go West cantata dai Pet Shop Boys è qualcosa che fa scorrere brividi lungo la schiena. La speranza è che qualcuno sia così avveduto da comprarlo per il mercato italiano. Vedremo.
Ben minor soddisfazione ha dato, nel pomeriggio, la visione d Taklub, ultima fatica del regista filippino Brillante Mendoza. Le intenzioni, quelle di innalzare peana nei confronti della “povera gente” dell’arcipelago, vessata da forze ben più imponenti di loro – politiche e meteorologiche –, si annacquano completamente in un progetto pensato a tavolino, su commissione istituzionale, e diretto con la mano sinistra da un regista che appare ben poco appassionato alla materia del contendere. Peccato, un’occasione in gran parte sprecata…
Per il resto ci sarebbe da annotare una delle scoperte più sensazionali fatte da quando vengo al Festival di Cannes, vale a dire la possibilità per tutto il popolo degli accreditati di mangiare alla mensa del Palais du Festival, insieme agli operai e alle maestranze del festival. Ma questa è un’altra storia, e non verrà raccontata mai…
(Raffaele Meale)