Share This Article
La Cina è vicina, parte seconda (la prima è stata pubblicata ieri).
Hou Hsiao-hsien non firmava la regia di un lungometraggio dal 2007, quando diresse Le Voyage du ballon rouge, produzione francese scelta all’epoca come apertura di Un certain regard. Otto lunghissimi anni durante i quali i cinefili di tutto il mondo hanno atteso che uno dei nomi fondamentali della new wave di Taiwan degli anni Ottanta (insieme a Edward Yang, Tao Te-chen, Ko I-Chen e Chang Yi) decidesse di tornare dietro la macchina da presa per proseguire il proprio esaltante percorso autoriale. The Assassin, ospitato in concorso al festival di quest’anno, è diventato dunque fin dai primi giorni un titolo bramato, atteso, desiderato oltre ogni dire. L’attesa, fortunatamente, non è stata vana. Tra le pieghe di un rarefatto wuxia – i racconti delle storie di cavalieri erranti, tipici della narrativa e del cinema in mandarino e cantonese – ambientato nel IX secolo d.c., Hou Hsiao-hsien cela uno sguardo amaro sulla labile illusione umana, sulla sconfitta, sull’impossibilità di coniugare il proprio “mestiere” (nello specifico, il ninja assassino) con la propria morale. Un capolavoro di assoluto nitore espressivo, dominato da una fotografia in bianco e nero e a colori che toglie completamente il fiato e da una regia asciutta, essenziale, che si tiene bene a distanza dal furore della battaglia e osserva le azioni dei personaggi senza entrare con forza nelle dinamiche. Un film straordinario, che rischia di non essere capito fino in fondo né dalla critica – sempre più annoiata e intenta a guardarsi l’ombelico – né dalla giuria. Vedremo…
La giornata, particolarmente ricca di visioni, si è aperta con Youth, il nuovo film di Paolo Sorrentino già uscito anche nelle sale italiane. Un profluvio di movimenti di macchina, dolly, carrelli, steadycam che si accavallano gli uni agli altri solo per nascondere (malamente) la vacuità di ciò che sta prendendo corpo sullo schermo. Un’opera che dimostra l’amore puramente edonista di Sorrentino per se stesso e per le proprie capacità registiche. Bozzetti che non diventano mai storia, o narrazione, ma restano bizzarrie desaturate o sovraesposte, frenesie di dubbio gusto. Non c’è umanità, nel cinema del regista italiano, né mai si respira la benché minima sincerità. Eppure in sala qui a Cannes sono scattati immediati applausi, e c’è persino chi vorrebbe un premio per questo esercizio di stile privo di profondità. Bah…
Glissando velocemente su Peace to Us in Our Dreams, il nuovo film del lituano Sharunas Bartas presentato nella Quinzaine des réalisateurs (ne ho visto solo quaranta minuti, poi, dato che i tempi di Koridorius, Lontano da dio e dagli uomini e Freedom sembrano irrimediabilmente lontani, ho preferito uscire dalla sala e gustarmi un caffè), vale la pena spendere due parole invece su Une histoire de fou di Robert Guédiguian, regista francese di origine armena noto anche in Italia per La ville est tranquille, Le passeggiate al campo di Marte e Le nevi del Kilimangiaro. Neanche si trattasse di un film di Ken Loach, Guédiguian si lancia in un pamphlet politico sulla questione della diaspora armena, che non dimentica le colpe di un’azione militante che si è distrutta dall’interno ma lancia accuse precise – e giustificate – verso un’Europa connivente, che per decenni ha fatto finta di non vedere e di non sapere cosa fosse avvenuto nell’Impero Ottomano a inizio Novecento. Un film traboccante retorica, ma anche profondamente sincero, verso il quale viene naturale provare affetto.
Il diario odierno si chiude con la conclusione della trilogia di Miguel Gomes As mil e uma noites, di cui ho già avuto modo ampiamente di parlare nei giorni scorsi. La terza parte, intitolata O encantado, è quella più spudoratamente letteraria, ma al tempo stesso sposa la finzione favolistica con il documentario, tracciando una volta di più le traiettorie di un cinema inventivo e politico, grottesco e doloroso, surreale e “vero”. Un gioiello purissimo, che ovviamente dalle nostre parti non si vedrà mai, salvo qualche casuale passaggio festivaliero. Mala tempora currunt.
Raffaele Meale