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L’ho rincorso per più di un anno, Sun Kil Moon, ogni volta tergiversavo.
Diciamoci la verità, bisognava sentirsi pronti ad affrontare il flusso emotivamente torrenziale di “Benji”.
Anche lunedì ho tergiversato, fino a poco più di un’ora prima del concerto ancora chiedevo “sostegno” ad una mia amica: “ci vado o non ci vado?”, e non in senso morettiano.
Certo, anche la possibilità di vedere sul palco Steve Shelley (Sonic Youth) e Neil Halstead (Slowdive) rendeva l’occasione particolarmente allettante, senza aspettarmi, ovviamente, chissà quali autocelebrazioni sonore.
Arrivo sul filo e rubo un posto vacante nelle prime file della sala Petrassi dell’Auditorium dove negli anni hanno suonato tra gli altri (e ho visto) anche Wilco, Andrew Byrd e Einstürzende Neubauten, ma quando calano le luci, sembra un posto nuovo.
Mark Kozelek entra per ultimo sul palco, un gigante in camicia a quadroni chiari e jeans neri. Due colpi al tom ed entriamo subito nel nuovo lavoro Universal Themes, con “Little rascals”.
L’ultimo lavoro ancora mi manca dall’inizio alla fine, ma mi si appoggia addosso come qualcosa di familiare. Intuisco il viaggio di sensazioni che troverò nel nuovo album e che accompagnerà lo show. Ma stavolta sono pronta.
Quando arriva il primo brano da Benji, “Micheline”, sono pronta.
Se posso, e senza nulla togliere altri artisti che pure mi hanno scombussolato durante altri concerti, sentivo che l’ex RHP, da “solo” sarebbe stato capace di masticarmi il cuore come un chewingum e farne palloni da scoppiare.
C’è riuscito con “Carissa”. Gilel’ho lasciato fare. Come un’Ophelia qualsiasi con il suo re di Danimarca.
Credo però che alla fine abbia scombussolato anche i suoi compagni sul palco. Ha fermato per ben tre volte l’inizio del brano successivo, troppa enfasi nella batteria, diceva; il quarto tentativo se l’è fatto andare bene.
E’ simpatico Kozelek. Non ci credete, vero? Lo è stato per tutto lo show. Ha presentato con soddisfazione orgogliosa i suoi compagni di viaggio e le sue guest star. Ha chiacchierato col pubblico, chiedendo se aveva visto Youth di Sorrentino.
Lo ha ringraziato, il pubblico, ironicamente, per la compostezza accennando all’atmosfera sleepy della sala, illuminata da pochi fari azzurri radenti le teste degli artisti sul palco. E non ha dato di matto contro chi, non curante, scattava foto accecanti.
La tensione è stata tutta nel concerto, nell’interpretazione dei brani, nella sua voce coinvolta e distaccata, impetuosa e indignata. Voce che ha fatto tremare l’aria e l’ha accarezzata.
Per dodici brani, dodici storie. Poi stop.
Rientrano sul palco dopo pochi minuti.
Un pezzo dilatatissimo, poi, per gentile concessione di qualcuno dietro il tendone, anche “Caroline”.
E poi lights on, the show’s over.
Mi riprendo cercando di ridar forma al chewingum masticato nel mio petto, mentre in pochi si avvicinano al palco, dove Shelley, seduto sul bordo è diventato ormai uno di noi. Anzi no, ancora più cordiale di noi.
Un ragazzo intanto porge a Kozelek la scaletta del concerto, trofeo preziosissimo, per un autografo.
Lui la prende e se ne va. Quel gran simpaticone di Mark…