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giovedì 13 agosto 2015
Nel festival della line-up random non esiste un filo conduttore. Spostato di una settimana verso il weekend che per noi rappresenta Ferragosto (qui nessuno sembra essere in ferie), la temperatura sembra quasi estiva nel parco Slottskogen.
Dopo aver visto lo scorso anno sullo stesso palco Outkast e Motorhead, non ci si stupisce più di nulla. Tra i punti di forza del festival l’atmosfera molto tranquilla e rilassata, i numeri relativamente contenuti (25mila persone in tre giorni nonostante i nomi altisonanti in cartellone) e la venue, il parco Slottskogen, splendida area verde nel cuore dell’area hipster della città più hipster di Svezia. Tra le altre peculiarità un po’ più bizzarre per il pubblico italiano il divieto di consumo degli alcolici fuori da aree appositamente delimitate e l’assenza di prodotti a base di carne e pesce. Nel parco si vende solo dell’ottimo cibo biologico e vegetariano, l’acqua comunque è gratis, da rigorosa tradizione svedese. Si passa senza accorgersene da un genere all’altro in un equilibrio tra i classici act da festival che fanno ballare e sognare le nuove generazioni a ripescaggi di lusso dal mondo d’autore, nuove promesse svedesi pronte a esplodere nell’immaginario collettivo, con un occhio all’avanguardia e al mondo indie rock soprattutto negli aftershow dello Stay Out West.
Con qualche eccezione. Vedi le Savages che hanno l’arduo compito di battezzare la giornata e rompere il ghiaccio quando buona parte della platea è ancora intenta a consumare – con la consueta glaciale educazione nordica – le scorte di alcol prima dell’ingresso. Primissimo pomeriggio, luce accecante che poco si presta alle sonorità del quartetto britannico. Loro hanno bisogno dell’oscurità, il tendone Linné non ne offre abbastanza alle due di pomeriggio, ma il revival post-punk freddo e spigoloso delle Savages diventa l’antipasto ideale per immergersi nella programmazione della giornata inaugurale Provare a ballare su Mumdance & Novelist allo stesso orario è un’impresa che necessiterebbe di aiutini chimici. Peccato. Il primo vero e proprio show da festival è quello di Kindness che sveglia tutti dal torpore pomeridiano. Tra rimandi wave, funk e irresistibili gemme di pop elettronico dal retrogusto black e soul, Adam Bainbridge, si candida subito a frontman migliore del weekend. Ci regala persino una cover dei Replacements, “Swinging Party” che i più giovani frequentatori del Way Out non riconoscono, ma accolgono con clamore, neanche fosse una hit radiofonica svedese. Kindness sa presentare bene qualsiasi cosa e il suo look è impeccabile.
Parlavamo di eterogeneità. Provate a immaginare in Italia un festival che vi offre nel giro di poche ore i compassati e atmosferici The War On Drugs (finalmente in una platea degna del loro spessore) che non disdegnano quelle digressioni on the road, un po’ kraut, un po’ Americana che un tempo erano il loro marchio di fabbrica. “Under The Pressure” e “Red Eyes” hanno cambiato le carte in tavola. Nulla sarà più come un tempo. Chissà cosa ne pensa Mark Kozelek che per fortuna arriverà solo sabato e non potrà vedere i suoi “detestati” TWOD. E poi all’ammucchiata dei Future Brown (molto divertente malgrado l’orario). Fatima Al Qadiri, J-Cush, Asma Maroof e Daniel Pineda se la cazzeggiano bellamente. Sanno benissimo di essere un po’ fuori orario. Bevono drink e vino, almeno loro, visto che sotto al tendone è vietato portare alcolici. E tra una selezione trap e un momento hip hop danno una variazione al tema a questo pomeriggio per chitarre. Su uno dei main stage arriva il momento nostalgia dei Belle & Sebastian che ripercorrono vent’anni di onorata carriera con vecchi classici e perle più recenti. Stuart con l’avanzare degli anni difende orgogliosamente quel suo mood da eterno sfigato, sussurra qualche aneddoto tra un pezzo e l’altro. La band tiene un profilo basso, ma è impossibile non emozionarsi bagnati dal sole pomeridiano svedese, durante “Expectations”, “Piazza, New York Catcher” e le malinconie indie pop d’annata di “Electronic Renaissance”. “The Boy With The Arab Strap” e “Get Me Away From Here, I’m Dying” sono inevitabilmente accolti da un’ovazione. A un festival c’è bisogno anche di queste certezze. Per fortuna.
Il primo giorno è il giorno dei frontman. Spiccano più dei Belle & Sebastian i due Sam. Lo squinternato Sam France dei Foxygen (al loro ultimo weekend di live prima dello scioglimento, ci mancherete pagliacci) che regalano un circo rock’n’roll a metà strada tra musical, Primal Scream e revival glam. E soprattutto l’irresistibile Samuel Herring dei Future Islands che offrono uno spettacolo incontenibile sotto il tendone che sembra esplodere (forse troppo piccolo un palco del genere per loro). Anche loro, come The War On Drugs, sono cresciuti dai tempi in cui si aggiravano tra piccoli club europei e americani. Dal vivo i Future Islands e il loro revival synth-pop/wave sono davvero straripanti. Impossibile non muovere il culo. Difficile agitarsi e dimenarsi come Herring, ma ci si prova. Sempre sotto al tendone si cambia registro con il giovane talentuoso iLoveMakonnen, tra i protetti di Drake, che sta perdendo visibilmente peso, assumendo un’aria quasi cool. Non è solo “Tuesday”, ma una serie di potenziali hit che fanno prevedere un futuro più che roseo per il rapper di Los Angeles. Non giovanissimo, ha ventisei anni, ma pronto a esplodere ovunque.
Nell’ora di cena si alternano due fenomeni norvegesi che in Italia conosciamo appena di nome: Kygo e Susanne Sundfor. Il primo è uno dei producer da classifica più popolari del Nord Europa. Riempie i festival di tutto il mondo con le sue sguaiate hit da dancefloor sempre pronte a sconfinare nell’EDM. Ma i più giovani vogliono anche questo in un festival che mai come in altre giornate ha offerto molta qualità e poco divertimento da festival mainstream. Susanne, invece, è di tutt’altra pasta. Elegante compositrice pop dai suoni molto curati e contemporanei, qui è vista come una popstar. E verrebbe da farsi due domande.
Un antipasto prima di un altro grande vecchio fenomeno da palco come Beck che regala un greatest hits per i fortunati che hanno trovato un biglietto prima del sold out. E per chi non ha avuto la fortuna come noi di assistere il giorno prima al secret show nel Pustervik. Non è accolto come sarebbe stato accolto qualche anno fa. Un po’ paga i suoi ultimi album poco chiacchierati e poco ispirati rispetto alla sua incredibile ascesa al successo di due decenni fa, ma con una band di polistrumentisti del suo calibro, una presenza scenica mai scalfita dagli anni, non resta che inchinarsi davanti a una delle ultime icone musicali del rock. “Devil’s Haircut”, “Loser”, “The New Pollution” e “Gamma Ray” sono delle schegge impazzite che non fanno scatenare la folla come meriterebbero. Non è un caso che anche nello show segreto del giorno prima, lo stesso Beck abbia accolto con ironia l’entusiasmo un po’ col freno a meno della sua platea. Per risollevarla aveva ironicamente presentato uno dei suoi brani come “il brano preferito di Kanye West e Jay Z”. Se però al Pustervik, questa freddezza era giustificata dal fatto che tutti avessero comprato il biglietto a scatola chiusa sperando in chissà quale sorpresa, è ingiustificata davanti a un live del genere. Le ballad fanno sognare come nei tempi migliori, su tutte “Lost Cause” e Beck sembra davvero aver fatto un patto col diavolo. A parte qualche inevitabile ruga, i balletti sembrano davvero quelli dei tempi di “Midnite Vultures”, con “Sexx Laws”, finalmente a risvegliare i più scettici.
Gli inchini finali sono tutti per la conturbante FKA Twigs che ipnotizza letteralmente con lo sguardo e rapisce coi suoi movimenti alieni e sinuosi come pochi artisti contemporanei. L’ammaliante vocalist britannica guadagna la scena con una prorompente, “Figure 8”, da “M3LL155X”, EP uscito proprio oggi. Impossibile staccarle gli occhi di dosso. La voce trafigge il cuore e le ossa, non manca nessuno dei brani che l’hanno resa popolare. Un finale degno per un weekend che si preannuncia, come previsto, molto eterogeneo.
Foto di Chiara Viola Donati(Instagram: @chiaraviolenta)