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venerdì 14 agosto 2015
Mentre buona parte del pubblico si riprende dall’hangover (noi siamo andati sul sicuro andando a fare un saluto a Viet Cong e IceAge), si aprono i cancelli dello Slottskogen.
Un’altra giornata di sole e un altro mix unico di sonorità e artisti tra passato, presente e futuro, impreziosisce il secondo giorno di Way Out West. Bisognerà tenere molte energie per lo Stay Out West che offre come sempre delle chicche per chiudere al meglio la lunga maratona di Göteborg.
Si parte subito con un big, a cui è stato assegnato lo scomodo slot delle 14. Sole battente, temperatura primaverile, ideale per iniziare col piede giusto. Father John Misty, ex folksinger tormentato e maledetto, oggi sex symbol piacione e narcisista del songwriting indipendente che aspira a platee mainstream, guadagna puntuale il palco Azalea dove lo attendono decine e decine di fan (soprattutto femminili, ma non solo) in adorazione.
Il disco della sua svolta pop ha un ottimo impatto live. Il resto lo fa lui da frontman navigato che si piace e piace tanto. Cerca di svegliare la folla con un “Hey Coachella”, ironizza su chi passa il live a riprenderlo dallo smartphone e chiede di essere taggato con l’hashtag #mumfordandsons per guadagnare like.
La sua presenza scenica è magnetica. “I Love You, Honeybear” è un disco che si lascia cantare dall’inizio alla fine. Il sole dà veramente quell’idea di festival americano, molto pacato e posato. Lui si piace e piace alle molto alle fan in estasi delle prime file. Così bravo e affascinante da risultare quasi odioso, J Tillman inaugura nel migliore dei modi la seconda giornata di Way Out West. Una giornata ancora lunga e varia.
Chi cerca l’elettronica la trova subito nell’oasi Dungen per Red Bull addicted. Dan Snaith (Caribou) aka Daphni la butta sul motown e le sonorità d’annata, Axel Boman sulla legna. Davvero difficile ballare alla luce, poco da fare. I più volenterosi usano degli occhiali scuri per illudersi di essere nel cuore della notte, ma servirebbero degli aiutini esterni per trasformare in realtà l’illusione. La Red Bull non può bastare.
Metà pomeriggio all’insegna dell’ultra pop con le sinuose sonorità gaie della nuova next big thing britannica degli Years & Years. L’età media si abbassa pericolosamente. Brani come “Shine”, “King” e “Eyes Shut” hanno un’incedere che farebbe ballare anche i pali e ritornelli a presa rapida. Il pop adolescenziale e da intrattenimento che ammicca agli anni Novanta (e a un’epoca mai vissuta da molti dei presenti) manda in visibilio tutti, senza differenze di età.
Camminare per il parco è un ideale percorso nelle sonorità più fresche della scena contemporanea pop. Dal folk all’elettronica si passa nel pop elettronico da classifica. Non in Italia, sia chiaro, ma da queste parti anche i più giovani sembrano premiare i progetti fatti bene. I progetti che fanno sembrare una comica messinscena mediterranea il pop da classifica cui siamo abituati dalle nostri parti. Da sempre gli svedesi sanno sempre confezionare il pop, dietro alle giovani meteore pop, c’è solitamente una band con un sound da superproduzione americana o un equipe di produttori nazionali che hanno fatto la fortuna di decine e decine di popstar.
La qualità e la fedeltà del suono degli impianti rispecchia questa cura per il dettaglio che riesce a rendere godibile anche i fenomeni da baraccone al limite della messinscena. Scandinava. Gli svedesi nel cuore della loro breve estate vogliono divertirsi e molti di loro preferiscono sbronzarsi ballando le hit del momento nell’area vip piuttosto che andare alla scoperta dei fenomeni più sofisticati presenti in cartellone. Tutto nel massimo rispetto della “diversità”, senza lamentele, fischi e sbadigli forzati.
La platea molto più giovane di quel che sembra le sa tutte e canta ogni brano dalla prima all’ultima parola. Tove Lo suona su un palco più grande ed è accolta anche lei con un entusiasmo sopra le righe.
Ogni paragone con il pop nostrano fa piangere.
O ridere, dipende dai punti di vista. Stesso discorso per la più tamarra Little Jinder che accende anche gli svedesini dal temperamento più freddo e pacato con qualche strizzata d’occhio alle sonorità black che qui fanno impazzire indie, metallari, fighettine, senza alcun discrimine. Fa molta specie vedere gruppetti di anziani che iniziano ad assieparsi dalle parti del palco Flamingo in attesa della rediviva vecchiarda Emmylou Harris che suona insieme a Rodney Crowell e la sua band. Cosa c’entra in un festival simile? La risposta è “robe da Way Out West”. Fa molto ridere il divario d’età tra questi nostalgici del country e i ragazzetti super-fashion che occupano le prime file dei main act. La quantità di alcolici consumati dagli over 40 si rivela una ottime fonte di guadagni. La maggior parte di questi nostalgici southern guadagnerà le vie dell’uscita non appena Emmylou finisce il suo show.
Noi ne facciamo a meno e ci defiliamo in attesa di Tyler, The Creator. Finalmente un po’ di hip hop. Tutti sembrano aspettare questo momento e l’esplosivo show del fondatore della gang di ragazzi terribili OFWGKTA non delude le attese. La prima volta che l’avevo visto all’opera al fianco della sua crew di sfaccendati, si dimostrava il frontman più talentuoso e promettente. Se su disco ultimamente sta facendo prevalere momenti più introspettivi e introversi, al limite della sperimentazione, con quel suo timbro a tratti cacofonico, basso e rauco, dal vivo recupera il suo spirito più circense. Acrobatico, graffiante, ironico e performer ormai navigato, Tyler è cresciuto del tutto. Una cavalletta con la faccia da schiaffi che illumina gli animi più spenti e assonati dall’inizio di pomeriggio. La speranza è quella che abbandoni il suo proposito di lasciare il mondo della musica per dedicarsi al 100% a quello del fashion.
Sarà banale vedere Caribou nel 2015 dopo le sue innumerevoli comparsate in Italia e in qualsiasi festival europeo, ma malgrado l’orario ancora pomeridiano è sempre uno spettacolo pirotecnico con pochi uguali nel suo genere. Il Linné è stipato, l’orario è quello giusto per ravvivare la serata e i momenti house fanno tremare il parco. La metamorfosi di Snaith è ormai compiuta e assistere a un suo live dà quel sapore contemporaneo che nei tempi del revival onnicomprensivo riesce ad appagare anche i palati più sofisticati.
Nuovo brusco cambio di rotta, genere e atmosfere con una delle chicche assolute del day 2: la signorina Lauryn Hill offre un concerto da altissima scuola black con ripescaggi da tutto il suo repertorio. I segni dell’età si avvertono, a tratti sembra la classica afro-americana di mezza età autoritaria e dispotica nel rivolgersi agli altri membri della band. Ma nonostante tutto, ha una voce che commuove ancora, dal soul all’r’n’b passando per i momenti più rappati dà una lezione a tutti. Anche il noto local hero Jens Lekman assiste in platea e sembra giustamente incantato. Alterna classici quali “I Gotta Find Peace of Mind”, “Lost Ones”, “Ex-Factor”, “Feelin’ Good”, “Ready or Not”, “Killing Me Softly With His Song”, “Doo Wop (That Thing)”, cover della tradizione black e digressioni reggae senza un attimo di tregua. Momento toccante per chi è cresciuto con la sua voce e le sue hit.
Dalle sonorità tradizionali a quelle più ricercate della musica nera contemporanea con Flying Lotus che nascosto dietro a uno schermo e alla sua tipica maschera regala un’ora di inebrianti e claustrofobiche visioni elettroniche dal grime alla techno passando per sprazzi jazzy e inquietanti tunnel senza uscita da dubstep degli albori. Neanche nel suo set mancano i momenti trap e grime, il buio del tendone Linné offre un bel momento di abbandono e alienazione. Sarebbe bello poterlo apprezzare a notte fonda, ma ci si accontenta.
La prima headliner della giornata è Florence & The Machine che offre una performance elegante, potente e perfetta per il pubblico presente. In Svezia, come ovunque, tutte le under 30 (e non solo) stravedono per lei. Anche lei dà lezioni di presenza scenica, torna su questo palco dopo tre anni e un seguito planetario che è ulteriormente cresciuto. “Shake It Out”, la nuova “Delilah” e la corale hit conclusiva “Dog Days Are Over”, con un battimani che si propaga in tutta la città. . Pop in Svezia non ha un’accezione negativa, da noi purtroppo in certi casi ancora sì. E a proposito di mostri sacri del pop moderno, la chiusura è invece affidata al live sfarzoso e nostalgico dei Pet Shop Boys che non si fanno fotografare per cui usate l’immaginazione. Da “One More Chance / A Face Like That” a “Leaving” passando per “West End Girls” e Fluorescent” è il solito sbriluccicante cyborg show d’altri tempi che ci porta per un’oretta dal pop anni Duemila al pop anni Ottanta con la P maiuscola.
Per sentire un po’ di chitarre, c’è sempre lo Stay Out West che oltre al grande spazio del molo Bananpiren inaugurato quest’anno, si sposta in due club, lo storico Pustervik dove abbiamo avuto la fortuna di vedere Beck nel secret show alla vigilia del festival e il Folk.
In questi due locali che si trovano sui due lati opposti dello stesso viale si alterna un po’ di roba che conosciamo bene o che finalmente riusciamo ad apprezzare su un palco: la conturbante Natalie Prass, gli amici Woods, i White Fence, la promettente Waxahatchee, lo scatenato Dan Deacon, le accattivanti Pins e soprattutto i Sunn O))) che fino alle 4 regalano uno spettacolo cupo e estremo che solo chi ha avuto modo di vedere può capire. Si va a dormire con la mente confusa e le orecchie che fischiano. In questo caso, i tappi di cui gli svedesi abusano, non avrebbero fatto male data la dimensione della venue. Entrare nei club dello Stay Out West è praticamente impossibile senza fare la fila molto presto o essere in guestlist e per questo ringraziamo i Woods e l’onnipresente Dr. Kiko che ci dà sempre una mano in momenti del genere.
Foto di Chiara Viola Donati (Instagram: @chiaraviolenta)