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Non fosse per gli avvicendamenti che hanno rivoltato come un calzino la scanzonata band di San Francisco, poco o nulla ci sarebbe da dire a proposito di questo ‘Mutilator Defeated At Last’, quattordicesimo album all’attivo dei prolificissimi Thee Oh Sees. John Dwyer a parte – pittoresco frontman rimasto ben ancorato al timone della band – vanno registrate le new entry di Tim Hellman al basso e Nick Murray alla batteria, al posto dei ‘dimissionari’ Petey Dammit e Mike Shoun. Riciclata come semplice voce sullo sfondo la tastierista Bridgitte Dawson. Una rivoluzione negli interpreti che conserva l’egida supervisione del fido Chris Woodhouse, tesoriere di synth e mellotron, nonché dell’intera produzione del disco.
Un disco che non aggiunge nulla di nuovo alla sterminata discografia dei nostri, ma che ne rilancia sensibilmente le azioni dopo la mezza défaillance di ‘Drop’. Un disco ‘canonico’ – per una band che di canonico non ha nulla – che aggiorna ulteriormente il vasto e multiforme catalogo Thee Oh Sees.
I motori rombano con ‘Web’, perfetta depositaria di quel sound che nel corso degli anni è diventato vero e proprio marchio di fabbrica dell’ensemble californiano: un tumultuoso garage-psych che esordisce in sordina, scandito dai bislacchi guaiti di Dwyer e trafitto dalle consuete ed esacerbanti sevizie chitarristiche. Stessa sorte che tocca a ‘Whitered Hand’, eseguita a velocità supersonica dopo un breve intro di basso che pare annunciare la quiete prima della tempesta. Completa il trittico iniziale ‘Poor Queen’, dai toni leggermente più smussati ma non per questo inferiore alle due stilettate precedenti. Dal caciaroso riff di ‘Turned Out Light’ – che si preannuncia dispensatore di poghi a iosa nelle tonnare live – si passa alla delirante ‘Lupine Ossuary’, sorella gemella e parecchio incancrenita della ‘Lupine Dominus’ contenuta in ‘Putrifiers II’: caos organizzato che sfocia in un ideale connubio tra Cramps, Thee Hypnotics e Velvet Underground.
Nel ventre del disco è incastonata ‘Sticky Hulks’, una delle gemme preziose dell’album: un’odissea di sette minuti impreziosita dal solenne motivetto d’organo che fa tanto Procul Harum e soggetta al bipolarismo delle chitarre, ora languide ora colleriche. Una suite psichedelica da ipotetico best of. ‘Holy Smoke’ è una soave parentesi acustica che cede il passo al garage fulmineo di ‘Rogue Planet’, chiamato a surfare l’onda dei conterranei Ty Segall e Mikal Cronin, mentre ‘Palace Doctor’ – altra perla ‘soft’ – ci congeda con una sinuosa e sfuggente melodia.
Trattasi di un lavoro di ottima fattura, che da continuità alla fragorosa saga garage-rock venata di psichedelia di John Dwyer e compagni. ‘Carrion Crawler/The Dream’ e ‘Floating Coffin’ rimango le vette (forse) inarrivabili. A questo ‘Mutilator Defeated At Last’ potrebbe andare un’inattesa quanto meritata medaglia di bronzo. Al pari di molti altri lavori sfornati dal collettivo made in Bay Area.
70/100
(Fabio Viganò)