Share This Article
In un’epoca in cui tutto cambia e si trasforma per sopravvivere, come si giudica un artista che non ha mai cambiato nulla nella sua proposta musicale, e che torna dopo anni di silenzio con un album che non è nulla di nuovo rispetto a quello che già conosciamo ampiamente?
Sono passati nove anni da “Gulag Orkestar”, il sorprendente esordio della Beirut band capitanata da Zach Condon. Nove anni che si sentono tutti, tanto che l’etno-gipsy-folk che aveva conquistato le orecchie “indie” – si usava dire così allora – risulta ora parecchio impolverato.
A dire la verità, la parabola artista dei Beirut aveva già subito un rallentamento sospetto quando, nel 2011, uscito “The Ripe Tide”, eravamo a commentare il solito disco, con le stesse melodie, le stesse canzoni, lo stesso modo di suonare e di cantare. Zach Condon e la sua creatura rischiavano di finire per annoiarci, e prima che fosse troppo tardi, è arrivato il silenzio: quattro anni interi senza che uscisse niente, non un nuovo pezzo, non un’indiscrezione, nulla di nulla. Un’assenza che giudicavamo “educata”: meglio così, che fare peggio.
Naturale quindi il crescendo del senso di attesa registrato qualche mese fa, quando uscirono conferme sul ritorno dei Beirut. Chissà se si sono finalmente inventati qualcosa di nuovo, veniva da chiedersi. Purtroppo però è stato il primo singolo estratto a disilluderci (già dal titolo): “No No No”, non è cambiato nulla. Zach Condon canta ancora esattamente in quel modo struggente, la band suona ancora esattamente quello stesso sound zingaro e ibrido tra folk e musica balcanica.
Lo diciamo molto francamente: è un’altra delusione, e forse questa volta dispiace anche di più. Perchè questo disco era per i Beirut l’occasione per rilanciarsi, per non sembrare già vecchissimi, per dimostrare la loro forza artista reinventandosi e trovando nuovi stimoli ed energie.
Invece siamo qui a scrivere di un disco stanco, di cui è difficile individuare i momenti felici, o almeno quelli che non provocano in noi il senso di noia. Sì, perché è così che ci si sente, davvero annoiati. Tutti i pezzi vivono a stento e solo perchè rievocano il ricordo dei loro predecessori più riusciti.
Vero è che “No No No” segna la conclusione di un brutto periodo personale per Zach Condon, ma è altrettanto vero che abbonare questo passo falso risulterebbe eccessivamente buonista: di dischi che hanno segnato una rinascita artistica oltre che personale nè è piena la storia, e questo di sicuro non verrà annoverato come tale.
Una volta che svaniscono l’entusiasmo per il ritorno e l’affetto che si aveva anni fa per quel sound etno-folk tutto suo, non rimane davvero più nulla.
I tempi sono cambiati, e per i Beirut non c’è davvero più spazio.
50/100
Enrico Stradi