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Domenica 6 Settembre il Postepay Rock in Roma ha offerto al proprio pubblico l’ultimo concerto della rassegna di quest’anno: i Linkin Park. Noi non c’eravamo. Sicuro è stata una chiusura della rassegna.con il botto, almeno per quanto riguarda la conferma del respiro internazionale della kermesse romana. Per noi invece tutto si è concluso con i live dei Tame Impala, il 26 Agosto e degli Interpol, il 2 Settembre.
Fermare la band australiana alla fine di Agosto, con moltissima gente ancora in ferie, è stata una grossa scommessa. I numeri hanno però dato ragione alla produzione. Con molta soddisfazione dei musicisti sul palco. Ad aprire la data dei Tame Impala ci ha pensato Nickolas Allbrook (musicista degli stessi Tame Impala fino al 2013, attualmente frontman dei Pond). Isterico, a tratti un po’ soffocante, da solo ha saputo ben tenere il grande palco di Roma. Divertito, ha interagito col pubblico tra un pezzo e l’altro, e il suo set è sfumato come il vino bianco in una pentola di brasato, lasciando nell’aria eco che ben hanno introdotto la band di Kevin Parker.
Dire che aspettavo trepidante questo concerto, è usare un eufemismo. Dal primo ascolto di “Innerspeaker” è nata e cresciuta incessantemente la voglia di vederli dal vivo e ancora non mi era mai successo. Come è capitato per pochissimi altri gruppi mi sono documentata sulla scaletta del loro live, dopo l’uscita di “Currents”, con la consapevolezza che ormai la band che avevo imparato ad amare dal 2010 è profondamente cambiata.
Ma c’è cambiamento e cambiamento e quando ci troviamo di fronte ad evoluzioni creative non si può far altro che lasciarsi andare al ricordo di un viaggio che rappresenta una parte di crescita un po’ per tutti, musicisti e ascoltatori.
Questa la mole di aspettative che il concerto dei Tame Impala già recava con sé, ancora prima fosse suonata la prima nota.
Quando sono saliti sul palco non ho potuto fare altro che lasciarmi trasportare nel riassunto del loro cammino, per il quale, certo, un’ora e quaranta di durata, non ha potuto dare un insieme completo, ma ha visto un buon bilanciamento di brani vecchi e nuovi.
S’è cominciato col nuovo: “Let it happen”, suonata nei suoi sette minuti completi, per la quale, però, mi aspettavo più trasporto da parte del pubblico. Pubblico che è esploso pochi brani dopo con “Elephant”, in un unico saltare collettivo, che letteralmente mi ha sbalzato indietro dalle primissime file. Uno dei pochi momenti “pogo” tutto sommato, sebbene è stato sempre più chiaro che la psichedelia della prima fase scemasse lasciando spazio all’interpretazione tutta Parkersiana di un pop super prodotto, con innesti di acidità anni ‘70, certo, ma ormai parecchio lontano dalle sonorità di “Innerspeaker” e “Lonerism”. Risvolti più volte spiegati dallo stesso “lonerista” in decine di interviste in giro per il mondo negli ultimi mesi. Ma la cosa che colpisce è che ancora certe sonorità non escludano le altre, quindi il concerto ha mostrato tutta l’intensità di una struttura ben coesa, finalizzata ad un coinvolgimento totale, forte anche di uno spettacolo visual decisamente straniante. Finanche all’ultimo pezzo. Anzi, agli ultimi due, quando il misconosciuto “Nothing that has happened so far has been anything we could control” (dal secondo album) è stato fuso con l’outro di “Sestri Levante”, lasciando i meno preparati un po’ interdetti.
Guarda la scaletta del live dei Tame Impala
Interdizione che purtroppo ha colto anche il pubblico degli Interpol, il 2 Settembre. Questo pezzo di New York mancava dalla capitale dal 2011, ne sentivamo la mancanza. Senza contare che “El Pintor” ha sancito una rentrée in grande stile del gruppo, dopo la sordina dei due precedenti album (“Our love to admire” del 2007 e “Interpol” del 2010). Una scusa in più per essere presenti insomma.
Anche loro, come altri, li avevo già visti al Primavera Sound, quest’anno. Avevo già idea della scaletta, mi era già chiara la loro mise en scène dello spettacolo. Niente guizzi da rock’n’roll band, nessuna chitarra spaccata in terra, poche variazioni sul tema insomma.
Eppure.
Eppure tutto sembravano fuorchè statici stavolta. Paul Banks, in camicia, senza giacca, che pure indossa almeno all’inizio di ogni live (per poi sbarazzarsene se le temperature lo obbligano), Daniel Kessler agitato come da copione nelle sue movenze nervose, e Sam Fogarino che ogni tanto perdeva colpi. Cosa che si è notata già dal quinto pezzo in scaletta, il classicone “Evil”.
Ancora, mentre lo show andava avanti, hanno accellerato su “Slow hands”, il massimo che si potevano permettere. E fuso un paio di brani nel mezzo, cosa che sinceramente ho visto fare zero volte, da loro.
Intanto Banks troppo spesso si avvicinava alla batteria, seguendo il compagno, quasi teso.
Dopo la pausa, prima dell’encore, un po’ di curiosità si stavano già levando dal pubblico.
La chiusura affidata a “Leif Erikson”, punto, ha quasi fatto sollevare gli astanti.
Il concerto è finito così. Con un grazie e fuga.
La spiegazione è arrivata poco dopo. Sam Fogarino si è fatto male durante il concerto e non riusciva più a suonare.
Amarezza per la conclusione repentina di un concerto che stava crescendo sempre più, pezzo dopo pezzo, dove Banks non aveva preso neanche una stecca e dispiacere per l’infortunio del batterista.
Peccato per tutti.
Intanto la macchina del Postepay Rock in Roma si è già rimessa in moto per l’edizione 2016.
Aspettatevi bombe. Bombe roboanti.
(Elisabetta De Ruvo)