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Ancora più che il fortunato precedente “Pale Green Ghosts” uscito nel 2013, l’ultimo lavoro di John Grant prova a fare i conti con il suo vissuto personale. Ma forse è anche il fatto di aver scavallato la complicata età dei quarantacinque anni, e con loro l’autoanalisi compiuta nei due primi dischi solisti, ad aiutare una lettura esistenziale meno cupa e dolente. “Grey Tickles, Black Pressure” suona infatti diverso dei suoi precedessori: il passato che prima era allo stesso tempo forza ispiratrice e zavorra esistenziale, ora sembra essere definitivamente alle sue spalle, e il John Grant del duemilaquindici è un quasi cinquantenne che si mostra musicalmente più libero e divertito di prima, senza però sacrificare il suo peculiare stile autoironico (“Grey Tickles” è infatti la traduzione letterale del termine islandese che sta per “crisi di mezza età”, mentre “Black Pressure” sta per la locuzione turca di “incubo”).
E probabilmente è infatti proprio questa maturazione di un sereno stato di coscienza personale ad aver permesso la scrittura di pezzi sciolti come “Snug Slack” e “You & Him” – la cui elettronica deve molto, per sensualità e barocchismi, a David Bowie epoca Duca Bianco e Prince – o il rock’n’roll tirato di “Guess How I Know”. Due anni fa canzoni del genere non sarebbero state così tanto nelle corde dell’artista statunitense, oggi invece suonano davvero in maniera coerente e convinta. E così anche gli episodi più classici, come la ballad “Down Here” e il suo ritornello che arriva a sorpresa, tra strofe cadenzate da chitarra acustica e sax, come un morbido e caldo abbraccio all’ascoltatore.
La prima metà del disco ci ribadisce, come se ci fosse poi bisogno di farlo, il vasto eclettismo e la classicità dei riferimenti musicali del ragazzone di Denver. La seconda metà di “Grey Tickles…” invece cambia registro, e ci piace pensare che proprio dalle tinte più malinconiche e struggenti di “Global Warming” in poi incominci il b-side del vinile. Da qui fino alla fine infatti l’album cambia nei colori: rimane ben saldo l’impianto folk-electro-pop impostato nelle prime sette canzoni, ma ora sembra di ascoltarne le sette gemelle cupe e oscure (fatta eccezione per “Disappointing”, l’unico sussulto, in compagnia di Tracey Thorn). “Black Blizzard” riprende l’elettronica, ma qui diventa ansiogena e claustrofobica; “No More Tangles”, “Geraldine” e appunto “Global Warming” sono ballad sì pompose ma che faticano a trovare il momento di calore che si avvertiva in “Down Here”. E infine, il recitato biblico di “Outro”, incentrato sul potere dell’amore, riprende la iniziale “Intro”, chiudendo il disco in modo circolare.
Ed è proprio alla fine del disco che il messaggio di John Grant diventa chiaro: “Grey Tickles, Black Pressure” è un album che si comprende del tutto soltanto se si tengono insieme i suoi due lati bipolari. Malinconia e spensieratezza. Dolore e affetto. Disperazione ed ironia. La mezz’età.
75/100
Enrico Stradi